Ci volevano gli
Insidia per farmi finalmente arrivare al
Dissesto, locale di cui avevo sentito narrare le cronache più e più volte ma che per lontananza (spesso anche da Roma stessa) non avevo mai avuto occasione di visitare.
Ed in effetti i 60km e passa che ci dividono non sono pochi ma l’occasione della prima serata del
Soundsrock Fest era troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire: a distanza di 23 anni da quel lontanissimo 1994 in cui ebbi la fortuna di assistere ad un evento memorabile con
Sadist,
Insidia e
Gravestone in quello splendido locale che era Il Castello, a due passi da S. Pietro (e a 5km da casa mia…) finalmente il fato e la dedizione di tanta gente, in primis delle band coinvolte ma anche di chi ancora si sbatte e si impegna per portare questi ragazzi a suonare nella capitale (e qui apriremo un capitolo a parte più tardi), ha fatto sì che riuscissi nuovamente ad assistere all’esibizione di una delle mie band preferite in assoluto della scena metal mondiale.
Sì avete letto bene, non è un refuso e sono pienamente convinto della mia affermazione, “
Istinto e Rabbia” è senza dubbio il disco thrash metal più riuscito ed incredibile mai partorito dal suolo italico ed il successore “
Guarda Dentro Te” ci va poco lontano, il tutto unito a testi che ho sempre sentito in maniera particolare, peraltro nella nostra lingua, la giusta dose di melodia perfettamente bilanciata con l’aggressività dei nostri li ha resi ai miei occhi ed alle mie orecchie, dopo qualche migliaia di attenti ascolti, assolutamente meritevoli di questo titolo.
Ma andiamo con ordine.
Arrivo al Dissesto e mi rendo conto che è poco più di un pub. Ma non è una critica, anzi, sono rimasto quasi affascinato dal contesto in cui è calato, un plesso industriale con parcheggio comodissimo, e dal fatto che si trovi al primo piano e non a livello strada, con un ampia terrazza esterna con tavoli, biliardini, televisori d’epoca e fantastica visuale a volo d’uccello sul cortile interno. Urban reality.
Certo, diciamo che è un po' fuori mano...si dice Roma ma non siamo proprio dietro l'angolo e ci vuole tutta un'ora di viaggio a strade sgombre per arrivare a destinazione.
L’interno è piccolo ma confortevole, l’acustica non è niente male - anzi - e fanno pure il caffè, sorprendendomi mentre già mi rassegnavo a prendere un amaro controvoglia. Invece era pure buono nonostante provenisse da una capsula.
Ok, adesso sono pronto ad assistere al mini festival.
Per una volta non faccio tardi e riesco a gustarmi praticamente per intero l’esibizione degli opener
Ecko, un gruppo romano credo formatosi non da troppo tempo che propone un heavy thrash piuttosto lineare, con diversi spunti riflessivi e melodici e qualche break down ad interrompere le parti più tirate.
Nonostante ci sia qualcosa da aggiustare, specie con i cori a volte un po’ “sguaiati”, bisogna dire che i brani hanno una buona presa ed i pochi minuti a loro disposizione sono ben sfruttati. Da segnalare la commozione del bassista Emanuele durante l’esecuzione di un brano evidentemente da lui molto sentito, la cosa mi ha colpito positivamente, la musica essenzialmente è trasmissione di emozioni, per se’ stessi e per gli altri, e quando ciò si verifica evidentemente vuol dire che si sta andando nella giusta direzione.
Da risentire.
Dopo un rapido cambio palco ecco che l’intro dei
Gravestone ci introduce questi veterani del death metal a tinte progressive che negli ultimi anni ho potuto ammirare più e più volte, sia nella formazione “mark I” post reunion, sia in quella attuale a sei elementi, certamente molto competitiva sia a livello tecnico (ricordiamo per i più distratti che alla batteria c’è una primissima scelta come
David Folchitto) sia a livello scenico, ed in questo il singer
Alessandro Iacobellis è maestro di interpretazione oltre che a possedere un uso assolutamente efficace e disinvolto di scream e growl, egualmente modellati a suo gusto e piacimento. La band fondata da
Marco Borrani nel 1992 si cimenta nell’esecuzione per intero del recente EP “
Proud to Be Dead”, non c’è spazio per il materiale più vecchio ma va bene così dato il valore dei nuovi brani, compresa l’opener “
Corpse Embodiment”, unica ripresa e riarrangiata dal primo “Simphony of Pain”, su cui spiccano le esibizioni di “
Flagellation” e “
Proud to be dead”, un monumento del death metal tout court.
Ottima acustica, prestazione al solito rotonda ed energica, ormai i Gravestone sono una macchina da guerra rodata ed affidabile, pronta e degna di palchi assai più impegnativi di quello di stasera.
Assoluta garanzia.
Insidia a parte, per i quali sarei venuto in ginocchio sui ceci, e Gravestone, che per fortuna adesso ho la possibilità di vedere in maniera piuttosto assidua, un forte motivo della mia presenza sono gli
Stage of Reality, di cui nei mesi scorsi riuscii a godere delle prestazioni (eccellenti) di alcuni suoi membri come
Andrea Neri e
Marco Polizzi (peraltro cuore pulsante dei “vecchi”
Astarte Syriaca) al Metal4Kids, e di cui sto sentendo parlare molto bene specialmente negli ultimi tempi.
Non avendo mai avuto il piacere di ascoltarli nemmeno su disco (il primo “
The Breathing Machines” risale ormai a quasi tre anni fa) ero completamente all’oscuro della loro proposta e la sensazione di essere stati spazzati via da una performance assolutamente esaltante è stato il fiore all’occhiello della serata.
Un hard rock incredibilmente coinvolgente, adulto, maturo, supportato da tecnica e passione posti sullo stesso livello, una capacità di stare sul palco non indifferente, un eccellente preparazione tecnica non solo dei succitati ma dei cinque quinti della band, il tutto unito a sprazzi di inserimenti elettronici, groove e tonnellate di riffs mai banali pur ricorrendo a linee vocali che si stampano immediatamente in mente, facendoti venire subito voglia di cantare il ritornello alla volta successiva. Raramente ero stato rapito così da un gruppo in sede live senza averne mai avuto conoscenza precedentemente, ed il merito oltre quanto detto va anche al frontman
Damiano Borgi, eclettico, a suo agio sia nelle tonalità più cupe sia in quelle più alte ed efficace anche come frontman. Da segnalare, ovviamente oltre ai loro brani uno migliore dell’altro (a questo punto curiosissimo di ascoltare il prossimo disco in arrivo ad ottobre su Rock Avenue Records), anche una riuscitissima cover di “Beat It” di
M. Jackson, artista di cui riconosco l’enorme importanza ma che non riesco proprio a digerire: beh, gli Stage of Reality son riusciti anche in questo miracolo.
Assolutamente sorprendenti e validi oltre ogni speranza.
Arriviamo al piatto forte della serata… Il concretizzarsi di un sogno a distanza di così tanti anni.
Ma siccome non voglio chiudere il report di una serata così artisticamente fantastica con toni negativi è il caso di affrontare adesso la questione accennata all’inizio.
Roma non è mai stata l’eden dell’heavy metal ma con ieri sera abbiamo toccato uno dei punti più bassi che io abbia mai visto, tra cui le 30 persone ai
The Crown, le 70 ai
Darkane, gli annullamenti dei Gotthard e roba varia.
Il fatto che il Dissesto sia piuttosto fuori mano e che fosse una data infrasettimanale può essere un deterrente ma non una scusante generale in una città metropolitana che conta oltre 4 milioni e mezzo di abitanti.
Un’audience indegna (ed ovviamente non mi riferisco IN PARTE ai presenti) persino per una piccola provincia, figuriamoci per quella che dovrebbe essere la capitale d’Italia e città più popolosa della penisola. Vergogna nella vergogna, mentre gli Insidia suonavano (ma lo stesso capitava un po’ per tutti) buona parte dei “presenti” erano nello spazio esterno a chiacchierare o trafficare col cellulare…
Ma maledetti voi, ci sono delle band della madonna che stanno suonando, persone che fanno sacrifici, si organizzano, si sbattono per portare tutto ciò in questa città che ancora una volta dimostra di non meritare NULLA.
I tempi di un Castello, Coetus, Metropolis, Frontiera e chi più ne ha più ne metta sono andati, morti, sepolti e dimenticati; me ne sbatto delle migliaia (e comunque sempre parecchio meno delle altre città italiane) presenti ai grandi nomi, di una scena si determina la ricchezza e la vivacità da queste serate e Roma si è dimostrata, come la sua controparte politica e culturale, davvero tabula rasa.
Pietà e vergogna per noi, la scena metal qui non esiste più e la mente non può che volare a quel leggendario concerto in cui gli Insidia spaccarono tutto di fronte ad una platea gremita, festante ed agitata. Spero vivamente per loro che possano trovare maggiori soddisfazioni nel proseguio del tour e che in questa città ci sia spazio solo per i Rovazzi ed i Fedez, i soli che questa parodia di metropoli si merita, anche se temo che ormai in tutta italia, volutamente minuscola, siamo diventati un popolo di imborghesiti, capaci solo di fare il like o il follower della situazione ma poi il culo si alza solo se e quando ci fa comodo.
Polemiche terminate, veniamo alle vere emozioni. Davvero il tempo non sembra passato per questi ragazzi, che danno l’impressione di non essere mai scesi dal palco in tutti questi anni di lontananza e l’inizio è a dir poco terremotante con la doppietta di apertura del nuovo album “
Denso Inganno”, ovvero “
Il mondo possibile” e “
Mai perdere controllo”; come immaginavo, i nuovi brani che già con gli ascolti erano letteralmente decollati, in sede live acquistano tantissimo e la voce di
Fabio Lorini, che a tratti sul disco non riusciva a convincermi del tutto (secondo me, lo ripeto, anche a causa della produzione che non aiuta), dal palco invece fa innamorare all’istante, trascinandoci all’interno della furia thrash che da sempre gli Insidia riescono ad innalzare, mescolando a perfezione melodia, aggressività, impatto e rabbia, in un turbinio di riffs assolutamente coinvolgenti ed in un attimo abbandono la mia solita “fredda” postura da frequentatore di concerti per lanciarmi sotto di loro a cantare i nuovi ed i vecchi pezzi.
Parlando della scaletta, c’è da dire che è stata piuttosto equilibrata anche a causa della soddisfacente lunghezza del set che ha permesso di suonare molte canzoni di “Denso Inganno” alternate a quelle storiche: non perdonerò mai alla band di aver tagliato la chiusura dedicata originariamente alla doppietta “
Sulla mia strada” e “
Grido”, peraltro il mio brano preferito della loro discografia su cui già pregustavo di sfasciarmi l’ugola, ma – premesso che andrò a vederli altrove pur di risentirla almeno una volta prima di morire – per fortuna c’è stato tutto il tempo di lanciarsi a rincorrere Fabio, Manny, Alberto ed i nostri ricordi sin da “
Fuggire” ovvero “
la’ dove tutto ha avuto inizio” come detto dagli Insidia stessi.
Prima di proseguire, menzione particolare per
Alessandro Venzi, il nuovo chitarrista, che oltre ad essersi calato perfettamente nel mood della band conferma quanto detto da
Manny in sede di intervista, ovvero il fatto di avere due chitarristi solisti in formazione da’ adito a continui scambi di parti ed incroci tra i due, rendendo il tutto assai movimentato ed interessante.
Si prosegue con un’altra doppietta da panico, ovvero l’apertura di “
Guarda dentro te”, “
Sì Realtà” e “
Nulla cambia”, cantate davvero con piena partecipazione e a squarciagola dai pochi ma buoni sottopalco ed i brividi si sprecavano, godendoci appieno un momento atteso da così tanto.
Dopo una parte centrale della setlist giustamente dedicata a “Denso Inganno” con “
Sogno Reale”, unico brano che ancora non mi convince del tutto, “
La casa dei segreti” (davvero terremotante e pesante con un grandissimo lavoro di
Alberto Gaspari dietro le pelli) ed “
A Causa Tua”, si ritorna ai classici con “
Qual è la differenza” e “
Terzo Millennio”, introdotto da un bel discorso di Fabio su come il tempo sia passato ma tutti i testi scritti al tempo da Riccardo siano rimasti oltremodo tristemente attuali.
L’apice emotivo del concerto si raggiunge probabilmente con l’esecuzione de “
Il Tempo” che unisce tutti noi in un’empatia collettiva, band e fan, a celebrare che 20 e passa anni dopo siamo ancora qua ad urlare insieme, noi e loro, prima dello sfogo finale con “
Tutti Pazzi” dei
Negazione con la quale gli Insidia si congedano musicalmente, per poi consegnarsi all’abbraccio delle persone che sono venute a sostenerli, a chiedere foto, autografi, a prendere magliette, polsini, birre dei loro “eroi”, fra i quali anche il sottoscritto, tornato 19enne per un’intensa serata di emozioni, di metal, di sorrisi, stanco (non per il concerto, per me poteva durare fino a mattina) ed affaticato da una vita che non è tutta ciccia e brufoli come quella di quando si era adolescenti ma sempre pronto a rendere il giusto omaggio a chi ti ha regalato così tanti momenti speciali.
E che continua a regalarli, ogni qualvolta premiamo quel tasto “play” sui loro capolavori.