Devo ammettere che quello dei
Gazpacho è il mio primo concerto in streaming, per cui non mi è possibile fare confronti del tipo “meglio di” o “peggio di”. Quello che però mi sento di dire è che ho affrontato un’esperienza “diversa” rispetto alle mie aspettative.
Musicalmente parlando non c’è nulla da aggiungere alla recensione già fatta alcune settimane fa:
“Fireworker” - qui eseguito nella sua interezza - è un ottimo lavoro entrato di diritto nella mia “Top 2020”, e continuo a considerarlo un moderno (e forse ancor più elegante)
“Atom Heart Mother”.
Quello che lascia perplessi è il risultato finale, più simile a una “prova generale” filmata che a un vero e proprio concerto, con i musicisti in cerchio, molto distanziati (ma forse a causa delle imposizioni Covid), talmente concentrati sui propri strumenti da non riuscire mai a interagire veramente tra di loro (gli occhi di tutti i membri dei
Gazpacho sono costantemente rivolti verso il basso o verso “l’infinito”).
Superato questo scoglio “formale”, quella che rimane è una performance inappuntabile, chirurgica ma glaciale nella migliore tradizione norvegese, con suoni equilibrati e perfettamente intellegibili che ben si sposano con le (tante) backing tracks.
Menzione speciale per
Jan-Henrik Ohme - unico con il suo timbro a cavallo tra Brandon Flowers e Matthew Bellamy, qui esemplare dall’inizio alla fine della (breve) performance - e per le splendide foto di
Nina Krømer.
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