Primavera 1997: è mezzanotte e mezza.
Driiin, driiin, driiin, il telefono squilla mentre mi sono appena adagiato a letto.
A metà tra il preoccupato (urgenze famigliari?) e l’incazzato (scherzetto telefonico?), muovo il deretano, metto i piedi per terra ed alzo la cornetta. “
Pronto”, dico con voce piuttosto impastata. “
Hello man, I’m Jon Oliva, how are you doin’?” e mi cade la mandibola.
E’ vero, avevamo un’intervista programmata per le 3 pomeridiane (ora italiana), ma evidentemente il Re della Montagna è rimasto registrato sull’orologio di Broadway. Faccio buon viso a cattivo gioco: “
Ciao Jon, qui sarebbe quasi l’una di notte”. Tuttavia la passione per la musica travolge tutto, misunderstandings inclusi e, dopo le scuse di rito da parte del cantante/songwriter americano, iniziamo a chiacchierare amabilmente su quello che diventerà il nuovo lavoro firmato
Savatage.
A dire il vero, la “creatura” che si sarebbe di lì a qualche mese trasformata in “
The Wake Of Magellan” è ancora un cantiere a cielo aperto, tanto che Oliva e
Paul O’Neill, presente pure lui per l’occasione, mi dicono che ancora non hanno deciso se avrebbero optato per l’ennesimo concept album oppure per un disco con una dozzina di canzoni a sé stanti.
Fortunatamente, e lo dico perché personalmente ritengo che la band abbia sempre espresso il meglio in occasione di opere con un unico filo conduttore lirico, il duo avrebbe optato per la prima ipotesi.
Dopo il pantagruelico menù orchestrale servito dallo straordinario “
Dead Winter Dead”, con quel suo rigore mitteleuropeo alimentato da una storia ambientata in quel di Sarajevo durante la guerra dell’ex Jugoslavia, “The Wake Of Magellan” irrompe in modo sicuramente più metal e hard rock, non disdegnando nemmeno alcune soluzioni che si potrebbero definire “moderniste” per lo standard dei Savatage.
Dopo l’infrangersi delle onde di “
The Ocean”, un pianoforte battente ci introduce alla sinfonia in classico stile musical di “
Welcome”, prima che “
Turn To Me” esploda in tutto il suo clangore chitarristico, con un
Al Pitrelli che inizia a macinare riff, assoli, e soffusi break melodici. Rispetto al succitato “Dead Winter Dead”, il vero valore aggiunto del disco è sicuramente la sua sei corde, al di là della perfetta calibratura vocale di uno
Zachary Stevens ancora una volta inappuntabile per espressività e pathos.
Il blues metallizzato di “
Morning Sun” ricorda alcune soluzioni del celeberrimo “
Handful Of Rain”, ma quando il cingolato guitar/keyboards di “
Another Way” riporta Jon Oliva dietro al microfono, i sentimenti dei vecchi fans si dividono tra goduria auricolare ed una nostalgia “canaglia” per il periodo “
Gutter Ballet”/”Streets”.
L’incipit dark di “
Blackjack Guillotine” è più
Black Sabbath di qualsiasi cosa prodotta dallo stesso
Toni Iommi nel dopo-Dio, ed il seguente riffing, pesante come un macigno, non fa che confermare l’incredibile verve compositiva di una band che sta letteralmente vivendo una seconda giovinezza.
L’ugola di Big Jon torna a dettare legge nell’orecchiabile “
Paragons Of Innocence”, mentre le scelte stilistiche updated si concentrano in larga parte su “
Complaint In The System (Veronica Guerin)”, con quel refrain dalla metrica quasi robotizzata. La produzione del duo Oliva/O’Neill mette in ampio risalto ogni sfumatura, dalle partiture più possenti a quelle che necessitano di elaborati arrangiamenti, come dimostra “
Underture”, breve suite dall’imprimatur sinfonico/orchestrale che anticipa la title-track del CD. “The Wake Of Magellan” vive tra esaltanti iniezioni progressive, impennate pomp rock non così distanti dai
Kansas, ed ovviamente una dose elettrica che ne sorregge tutta la struttura: da manuale del songwriting il finale, con la solita, magistrale sovrapposizione a più voci che ha fatto la fortuna di questa e tante altre songs del gruppo.
Non può assolutamente mancare la ballad di turno, struggente, malinconica, capace di trasformare il dolore emotivo in una sublimazione del piacere spirituale, come è sempre stato nelle corde di questa immensa band: “
Anymore” è tutto questo ed anche di più, provare per credere. La strumentale “
The Storm” (gli assoli di
Al Pitrelli “sanguinano” letteralmente) ci conduce nel modo più naturale alla conclusiva “
The Hourglass”, col protagonista della storia che si ritrova a fronteggiare una sorta di “reckoning” personale: il riff portante è ancora fottutamente Black Sabbath, anche se ovviamente il tutto viene poi risolto dalla straordinaria classe esecutiva di una band unica ed irripetibile.
Come la clessidra citata nel titolo, musica senza tempo.