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Domain sono sempre stati un nome di culto all'interno della scena metal tedesca. Attivi sin dal lontano 1987, hanno saputo guadagnarsi negli anni una reputazione di tutto rispetto, pur senza raggiungere lo status di altri ben più illustri concittadini. Non tutta la loro discografia è degna di essere ricordata, ma qualche piccolo gioiellino di hard and heavy lo hanno fatto anche loro, inutile negarlo. Il sottoscritto ricorda con piacere soprattutto “Last days of Utopia”, uscito nel 2005, che fu anche uno dei primi lavori che recensì per eutk, e che era ammantato di un ottimo feeling epico alla Rainbow/Dio.
“The chronicles of love, hate and sorrow”, dodicesima uscita per il quintetto teutonico, è un disco tanto altisonante nel titolo quanto nel contenuto. Altro non è infatti che un concept ispirato al celebre romanzo di Goethe “I dolori del giovane Werther”, uno dei capisaldi della letteratura romantica europea, che ha avuto ne “Le lettere di Jacopo Ortis” di Foscolo il suo epigono italiano. Personalmente non ho amato nessuno dei due, anche se ho preferito leggermente la versione tedesca di questa tragica storia di amore passionale e selvaggio. Che una simile vicenda possa essere stata fatta oggetto di un disco metal è cosa che mi ha sorpreso non poco, anche se forse le atmosfere tempestose e crepuscolari di un certo paesaggio possono avere fatto la loro parte nella fase di songwriting. Non avendo avuto modo di leggere i testi, non sono in grado di dirvi in che misura l'intreccio della vicenda sia stato rispettato. Una cosa però è certa: musicalmente si va sul sicuro. Le dieci canzoni che compongono il disco (undici, se si considera una bonus track che però nulla ha a che fare col concept) sono un perfetto compendio di power metal made in Germany. Ritmi decisamente veloci, tastiere a tappeto e ritornelli di facile memorizzazione, sono gli ingredienti utilizzati dai Domain per confezionare un album che senza dubbio farà la gioia di tutti i loro fan sparsi per il mondo. Non si brilla per originalità (il ritornello di “Picture the beauty” è palesemente rubato a “Tears of a mandrake” degli Edguy, ma si sa che le note sono sette) e un po' dispiace che sia scomparsa quella componente hard pomp che aveva caratterizzato alcuni dei lavori precedenti. Ciononostante, questo è un album che non annoia e che si fa ascoltare più che volentieri, lontano dalla fiera delle banalità che sempre di più sta diventando il classic metal. Non faranno certo il botto con questo lavoro (e in fondo è giusto così) ma i Domain si confermano una volta di più un act di valore indiscusso. E chissà mai che a qualche giovane teenager non venga anche voglia di andarsi a scoprire il libro: le storie d'amore mi danno i nervi, ma pur sempre meglio Goethe di Federico Moccia....
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