E’ ormai da parecchio che fisso questo “foglio” bianco, con il cursore del mouse che lampeggia beffardo quasi volesse prendersi gioco della mia incapacità nel reperire le parole necessarie ad intraprendere quella che probabilmente è l’impresa più ardua da quando collaboro ad Eutk: rendere efficacemente il magma d’emozioni e suggestioni che affollano la mia persona dopo essermi sottoposto a “Racconto d’inverno”, contemporaneamente il nuovo disco degli
Arpia e il debutto nell’universo della letteratura di
Leonardo Bonetti, che del gruppo romano è raffinato musicista e sensibile compositore.
Una questione particolarmente complicata, impegnativa e delicata, dunque, dover illustrare con adeguatezza le prerogative, il valore artistico e i sentimenti evocati da un disco che è anche un libro (licenziato dalla casa editrice Marietti 1820) e da un libro che è anche un disco, entrambi capaci di brillare singolarmente di scintillante luce propria, ma fatalmente destinati a rincorrersi, compenetrarsi e
completarsi vicendevolmente un po’ come fanno le gocce di pioggia sul finestrino di un treno in corsa.
Ebbene, forse la soluzione migliore in questo caso è quella di farsi “aiutare” da qualcuno più autorevole e preparato ed ecco perché durante l’ascolto e la lettura di quest’opera mi sono venute in mente le parole di Daniel Barenboim, celebre direttore d’orchestra:
“La musica aiuta ad allontanare l’individuo dal mondo, ma è assolutamente fondamentale anche per capirlo”. Il concetto espresso è semplicemente perfetto per il contenuto di questo Cd, ma è altrettanto ineccepibile per quello del romanzo ad esso così indissolubilmente legato.
Il tema della
fuga da tutto e da tutti sullo sfondo di un conflitto civile non meglio identificato, indefinito nel tempo e nello spazio (non è così importante descriverlo precisamente … sono tutti ugualmente dolorosi, insensati e totalizzanti negli effetti, tanto che, come accade in questo caso, si arriva addirittura a voler cancellare la speranza e il ricordo di un mondo diverso, incapace di combattere la violenza che li ha generati), con i tre protagonisti senza nome che diventano le enigmatiche guide in un viaggio interiore e profondamente metafisico, non è esso stesso un mezzo attraverso il quale si può tentare di scavare nella propria anima e da lì, magari, riuscire a comprendere un po’ meglio le contraddizioni e le controversie del nostro vivere?
E la narrazione, incredibilmente affascinante con la sua trama avventurosa e le sue inquietanti ambientazioni che rimandano alla migliore tradizione “gotica” della letteratura e al suo “sublime del terrore”, pregna di una suspense sviluppata attraverso uno stile raffinato, minuzioso nelle descrizioni (quelle della natura selvaggia e delle montagne che fungono da ultimo baluardo per una fuga che non si
riesce a concretizzare, così come non si può
sfuggire al proprio destino, quelle degli stati d’animo e delle angosce dei personaggi o ancora quelle degli anfratti dell’arcaica e lacerata dimora che li ospita, con i suoi mille misteri e reconditi significati) eppure così agile, non rappresenta una favolosa metodica per abbandonarsi all’immaginazione e allontanarsi, almeno
apparentemente, dalle fatiche e dal grigiore del quotidiano?
E ancora, i labili confini e le intersezioni tra irrazionale e ragione, tra soprannaturale e drammatica concretezza, tra incubo e una realtà talvolta capace di “far smarrir la mente”, tra ossessione, dubbi filosofici e mistici, tra
volontà e fiducia, tra amore, rassegnazione, guerra, sensualità, eternità e morte, non toccano questioni sempre attuali e significanti, oltre che irresistibilmente fascinose?
Arrivati specificamente alla versione discografica del prodotto e quindi a quella che di solito viene trattata da queste parti, essa non è altro che una trionfante trascrizione sonora delle peculiarità immaginifiche e delle profondità emozionali, poetiche e intellettuali così copiosamente riscontrate nella pagina scritta.
La lunga suite divisa in 19 movimenti che compone il platter, con le sue sonorità sospese fra leggiadrie acustiche e prepotenti intensità armoniche che s’inerpicano nella mente e nel cuore dando forma al pensiero e potenza vitale alle sensazioni, si nutre di corruschi e suggestivi bagliori di prog-rock oscuro e malinconico, abilmente sviluppati dalle voci “teatrali”, straordinariamente evocative di Paola Feraiorni e dello stesso Bonetti, e anche grazie al prezioso artwork desolante e crepuscolare di Ettore Frani, incarna un nuovo imponente passo nel generoso percorso artistico degli Arpia, una band che come ho già scritto ai tempi del precedente “Terramare”, conferma in toto il suo ruolo di una delle realtà più ricche di talento e di carisma dell’intero panorama musicale tricolore e che in questo caso realizza addirittura quello che non esito a definire come un importante tassello nella formazione della musica italiana degli anni 2000.
Il plusvalore letterario mi induce a chiamarlo “rock d’autore”, anzi strepitoso “rock d’autore” … e non c’è pretenziosità di sorta in questa definizione … credetemi.