Ed eccoli, gli attesissisimi
Chickenfoot, per i quali l’altisonante appellativo di “supergruppo” non è affatto pletorico. Come chiamereste un outfit che riunisce sotto lo stesso “tetto” Sammy Hagar, Joe Satriani, Michael Anthony e Chad Smith, autentiche celebrità del rock che vantano carriere galattiche sotto il profilo dell’affermazione professionale ed economica?
Inutile nascondere che l’incredibile attrattiva di questi progetti si accompagna ad un’almeno equivalente dose di scetticismo riguardante innanzi tutto la “sincerità” di tutta l’operazione.
Ebbene, ascoltando “Chickenfoot” parrebbe davvero giustificato il patrocinio dell’immagine “romantica” di quattro straordinari musicisti che decidono di collaborare e influenzarsi vicendevolmente, spinti da una genuina voglia di fare musica assieme, sacrificando i rispettivi ego sull’altare del rock n’ roll, quello vero, diretto, sanguigno, che trae linfa vitale dalla competenza e dall’estro, ma senza dimenticare quella sana attitudine al divertimento e al sorriso, la stessa che è invece sembrata mancare in tante situazioni analoghe.
L’impressione è, dunque, che in questo caso il business e gli individualismi siano stati sgominati dalla passione comune per una causa “superiore”, e che questo sia avvenuto con una libertà e una “semplicità” piuttosto sorprendenti, visti i nomi e gli interessi in gioco.
Il disco è, infatti, un sontuoso coacervo di hard, heavy rock, funky nero e blues, di voci roche e vibranti, chitarre grondanti di luce e di feeling e di ritmiche groovy, voluminose e tumultuose, il tutto miscelato in modo da essere restituito con un “fuoco” che rammenta i migliori interpreti del genere, tra cui proprio i Led Zeppelin, spesso, in questi mesi d’attesa per l’uscita dell’albo, citati come l’unico paragone credibile per i quattro della “Zampa di Gallina”. Bisognerà aspettare ancora un po’ e valutare
qualche altro lavoro, per parlare eventualmente di “nuovi Zeppelin”, una caratterizzazione tanto abusata quanto, almeno per quanto mi riguarda, concettualmente
assurda (tanto più che qui si tratta di veterani!), ma è innegabile che nei solchi di questo debutto c’è parecchio di quel modo di trattare i “classici”, di quella forza espressiva, di quel lirismo “elettrico” e di quelle atmosfere magnetiche, che hanno reso immortale il divino Dirigibile.
Insieme a questo nobile retaggio (aggiungiamo anche Grand Funk Railroad, Aerosmith, Humble Pie, Bad Company e Who, alla blasonata compagnia), non potevano mancare anche allusioni alle varie esperienze artistiche dei nostri, con richiami al blues ipervitaminico e cromato dei Montrose, all’hard sofisticato dei Van Hagar e al funk-soul alternativo dei Red Hot Chili Peppers, e tuttavia nonostante questo turbinare d’inevitabili suggestioni, il gruppo non perde mai una propria identità, in cui tecnica impeccabile e soprattutto un songwriting fantasioso e spontaneo assemblano con intelligenza un programma che non cerca il colpo ad “effetto” e non persegue esasperatamente la conquista dell’hit single.
Questo non significa che la melodia e anche una certa “ruffianeria” (“My kinda girl”, la magnifica ballad “Learning to fall”) non trovino una giusta collocazione, ma il manierismo è assolutamente bandito da queste lande musicali, capaci anche di bulldozer sonici (“Avenida revolution”), di lambire i toni oscuri del grunge (l’avvincente “Get it up”), e poi, nel resto di un repertorio assai valente nella sua globalità (con il crescendo emotivo “Future is the past” perfetto come “titoli di coda”, tra bagliori acustici, palpiti funky ed effluvi psichedelici), di continuare a dare libero sfogo a tutte le sfumature di un sound “tradizionale” che quando gestito da mani sapienti come queste non perde una stilla della sua attualità.
Dotato di una produzione e di un mixaggio efficaci e non invadenti (courtesy of Andy Johns e Mike Fraser) “Chickenfoot” è da giudicare come il favoloso prodotto di una favolosa formazione dalle grandi motivazioni, costituita da artisti che
quasi solo “incidentalmente” possiedono anche conti correnti principeschi, e anzi, forse proprio per questa ragione, non si preoccupano troppo dei risvolti squisitamente commerciali del proprio operato.
La conclusione è riservata ad un (per nulla inedito) auspicio, quello che le sensazioni che ho provato (suffragate dagli annunci della band stessa) siano realtà e che questo sia l’inizio di un percorso, poiché a dispetto di un grandissimo risultato, credo fermamente che il meglio debba ancora venire (incontentabile, eh?) … sarebbe un peccato enorme limitarsi ad un progetto estemporaneo (e per alcuni di questi protagonisti non rappresenterebbe una novità, ricordando, ad esempio, l’unica strepitosa prova discografica a nome Hagar, Schon, Aaronson & Shrieve o addirittura i Planet US, la prima incarnazione dei Soul SirkUS, mai arrivati ad una pubblicazione ufficiale) e con questa riflessione godiamoci la prima testimonianza sonora di questi quattro “ragazzacci”, i quali dimostrano, parafrasando l’immaginario alimentato dal loro monicker, che qualche volta, smentendo un noto luogo comune, tanti “galli nello stesso pollaio” possono davvero fare cose egregie.