Da quando li “conosco”, e vale a dire da “Sleeping in the traffic pt. I” (mentre ammetto di sapere poco della loro produzione precedente), ho sempre considerato i
Beardfish come un gruppo praticamente “perfetto” per i più puristi tra gli appassionati di rock progressivo.
Gli svedesi sembrano, infatti, il prototipo della formazione tecnicamente impeccabile, attenta a onorare con dovizia alcuni dei principali protagonisti dell’epoca aurea del genere, aggiungendo al quadro complessivo un moderato contributo proprio di “libera creatività” atto ad evitare un approccio troppo sottomesso e dipendente pur senza sovvertire inopinatamente le “regole del gioco”, andando, magari, a contaminarsi con prospettive stilistiche in qualche modo “estranee” a questi territori, come fanno ad esempio i seguaci di quel suono che viene talvolta definito
neo-prog o addirittura, in altri casi, identificato come un particolare tipo di
alternative-rock.
Queste considerazioni non vogliono affatto essere una critica “inappellabile”, anche perché personalmente li ritengo uno dei nomi “nuovi” più interessanti di questo specifico panorama musicale, ma desiderano solamente porre l’accento su un’attitudine che di veramente
progressivo ha ormai pochino e si limita ad un’eventuale ricerca d’innovazione e d’evoluzione all’interno dei confini stessi del fenomeno musicale, per quanto essi siano ampi e variegati.
Insomma, anche in questo “Destined solitarie” ritroviamo richiami alla scuola di Canterbury (tra l’altro mai riconosciuta dai suoi fondatori!), ai grandi del rock britannico dei seventies (nelle sue varie forme espressive: granitico, romantico, nervoso, inquieto, imprevedibile e psichedelico), ai timbri sarcastici del jazz-rock americano e alle leggiadre entità del folk nordeuropeo, in una girandola di fulminei flashback che, durante l’ascolto, rievocano le “antiche” immagini di Genesis, Gentle Giant, Yes, Pink Floyd, Soft Machine, Uriah Heep, Zappa, Jethro Tull, Caravan, o quelle più “moderne” di Flower Kings, Spock’s Beard, Echolyn e IQ, tra i migliori epigoni, proprio come gli stessi Beardfish, di quell’indimenticabile pletora di maestri.
Il disco è assai piacevole e suggestivo, riesce ad evitare i “freddi” perfezionismi formali grazie ad una notevole componente emozionale e ad una spiccata sensibilità melodica, in grado di soddisfare anche le esigenze di quei musicofili meno avvezzi alle situazioni più sperimentali e d’avanguardia, senza perdere di vista la vitalità (persino veemente, nel simil-growl vocale della title-track!) e la necessaria intensità.
La
musicalità dei quattro scandinavi è ancora una volta da valutare come significante valore aggiunto della loro performance, costantemente fluida nel cangiante svolgimento e piuttosto lucida nella trasposizione in note delle idee, per un programma che nonostante l’estesa durata (quasi settantasette minuti!) si ascolta con gusto e scorre gradevolmente, in equilibrio tra fantasia, virtuosismo, prontezza e sentimento.
Mentirei, se non ammettessi che, a questo punto della loro carriera, mi sarei aspettato un ulteriore “salto di qualità”, un incremento di personalità nella visione artistica di un gruppo molto preparato e intelligente che forse ha “soffocato” un po’ la propria ambizione “evolutiva” per rispettare la sua dedizione nei confronti dei “classici” e tuttavia credo proprio che ci si possa “accontentare” delle virtù dei Beardfish, ideali per i progsters meno interessati “all’innovazione” e lodevoli per tutti gli amanti della buona musica non banale.
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