In fatto di ritorni sulle scene, credo che i
Jerusalem possano concorrere per qualche primato.
La loro storia inizia nel lontanissimo 1971, con la pubblicazione dell’album d’esordio omonimo. Che all’epoca la formazione fosse quotata, lo testimonia il fatto che a supervisionare il lavoro si scomodò nientemeno che Ian Gillan, leggendaria voce dei Deep Purple. Infatti pare che i Jerusalem fossero considerati una sorta di mix tra Uriah Heep e gli stessi Purple, in versione prog-rock.
Il disco ebbe discreto successo e portò la band a dividere il palco con artisti del calibro di Supertramp, Humble Pie, Curved Air, ed altri protagonisti settantiani. Tutto sembrava andare bene, invece, per ragioni poco chiare, l’anno successivo portò già lo scioglimento. Poi, nel ’75, la tragica scomparsa di uno dei fondatori mise fine all’ipotesi di una ripresa dell’attività musicale.
Ora, dopo circa quarant’anni, il gruppo torna in vita grazie all’iniziativa del vocalist L.Williams e del chitarrista R.Cooke, entrambi membri di quella prima line-up.
Ovvio che tutto sia radicalmente diverso da allora, ma il leggero ritorno d’interesse per le sonorità prog “classiche” sembra giustificare tale scelta. La coppia ha quindi reclutato compagni di qualità, cioè la sezione ritmica degli Spock’s Beard ed uno degli ex-tastieristi di Asia e Yes, allo scopo di realizzare qualcosa che non fosse soltanto banale e nostalgica rivisitazione di un passato ormai irripetibile.
Possiamo dire che i Jerusalem sono riusciti, almeno in parte, nel loro intento. I brani di questo “Escalator” sono abbastanza articolati e flessibili nelle soluzioni senza apparire mai prolissi, vecchio difetto di certe bands settantiane. Buona eleganza di fondo, anche quando le tematiche diventano più oscure ed orrorifiche, e spesso prevale la robusta componente hard rock su quella più melodica e progressiva. Si ottengono così i risultati migliori, come la dinamica e grintosa “Hooded eagle”, la cover Hendrix-iana “Stone free”, oppure una potente e darkeggiante “When the wolf sits”. Ci sono però anche episodi più deboli o che, ripescati dal periodo degli esordi, non hanno retto al trascorrere del tempo. In questi casi, neppure l’ancor sicura voce di Williams o il generoso solismo di Cooke, riescono a rimediare con qualche guizzo illuminante.
D’altronde dopo quattro decenni di silenzio, dai Jerusalem non si poteva pretendere chissà quale capolavoro. Il risultato è un disco più che dignitoso, che piacerà a chi ha apprezzato gruppi come Iron Butterfly, High Tide, Argent, ecc, senza il gusto polveroso del reperto d’antiquariato. In attesa del terzo episodio, stavolta già in preparazione, diamo il nostro “bentornati” ai maturi Jerusalem.
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