Il 1970 è un anno decisivo per le sorti della musica rock… Sebbene negli ultimi 2 o 3 anni dei ’60 già c’era un certo fermento e nell’aria c’era odore di cambiamenti, grossi cambiamenti, l’anno che ha segnato in maniera indelebile la musica è stato proprio il primo della prima decade, con una serie di uscite discografiche inarrivabili, che di fatto segnarono la nascita dell’hard rock. Molti sono i titoli fondamentali usciti in questo stupefacente anno, ma, tra tutti, importanza primaria l’ha senz’altro “In rock” dei
Deep Purple.
Già nei precedenti album si poteva intuire che i cinque giovanotti inglesi avevano doti fuori dal comune, ma ancora troppo forte era l’influenza del beat nelle composizioni di quegli anni. Per non parlare poi della presenza più che ingombrante che ricopriva Jon Lord, da sempre padre padrone della band, che portò i nostri ad incidere quel capolavoro (sempre troppo sottovalutato) di “Concerto for group and orchestra”, e che in realtà era più che altro un sogno, un capriccio, proprio del geniale tastierista.
Qualcosa però stava cambiando nella band… e non mi riferisco solo all’ingresso di Ian Gillan e Roger Glover in sostituzione di Rod Evans e Nick Simper, che proprio sul disco con l’orchestra fecero il loro debutto nei ranghi dei Deep Purple (e che debutto!!!)… In realtà un cambiamento molto più radicale stava per mutare per sempre la storia della band. Un indomito e sempre più irrequieto Ritchie Blackmore riusciva sempre meno a tenere a freno le sue idee e la sua voglia di rendere la sua band la più dura e rumorosa del periodo. E se già in alcuni brani dei primi tre dischi questo era più che intuibile, è proprio con “In rock” che ‘the man in black’ decide di imporsi sul suo compagno Lord e di dare una sferzata violenta al sound dei Deep Purple. E se riflettete un attimo su un paio di particolari, vi renderete ben conto di quali fossero le intenzioni di Blackmore… Il titolo “In rock”, dal doppio significato, unito alla splendida immagine di copertina, una parodia della famosa scultura del monte Rushmore raffigurante in effetti le cinque teste dei nostri musicisti, faceva intendere che tutto era stato scavato nella roccia, dalle loro teste al loro sound, e in effetti un’allegoria migliore non potevano trovarla…
E così, un normale ragazzo di quegli anni, nel Giugno del 1970, si reca dal suo negoziante di fiducia, trova negli scaffali degli LP questo strano vinile, e affascinato dal nome e dall’immagine di copertina decide di comprarlo… Va a casa tutto felice del neo acquisto e una volta arrivato tira fuori il vinile, lo appoggia sul piatto e poggia la testina… E all’improvviso il chaos… Un rumore assordante per l’epoca (ricordiamoci in che anno siamo…) irrompe dagli altoparlanti… è Blackmore, che sevizia la sua Stratocaster, seguito a ruota da un Paice come impazzito, e da Lord e Glover che fanno da tappeto all’ira del chitarrista… il tutto dura solo pochi secondi, 45 per l’esattezza, prima che l’organo di Jon riporti la calma dopo la tempesta… ma è una calma apparente, perché dopo un sognante fraseggio del baffuto tastierista è ancora Blackmore a riprendere le redini, con un riff che per l’epoca era un macigno. Il brano esplode, la band sembra impazzita, il nuovo entrato Ian Gillan urla tutta la sua rabbia con una voce straordinaria… è l’inizio di “Speed king”, è l’inizio di un’era, è l’inizio di un nuovo modo di intendere la musica… potenza, ma sempre con il gusto straordinario e la perizia tecnica che hanno continuamente contraddistinto il gruppo… splendido l’intermezzo organo/chitarra, prima che la follia riprenda piede, con Gillan sempre più disumano… ma non è il solo… tutti e cinque sono in stato di grazia, e lo dimostrano brano dopo brano…
“Bloodsucker” prosegue il cammino, con un altro riff potentissimo e ancora una volta un Gillan stellare, che raggiunge vette fino ad allora inimmaginabili con la sua voce a tre dimensioni… chiara, potente, altissima… riesce a farne quello che vuole… e ancora una volta è splendido notare come i nostri riescano a dosare cattiveria e melodia, irruenza e tecnica (sopraffina…), con Blackmore sugli scudi e Lord che fa di tutto per non abdicare, riuscendo a ritagliarsi degli spazi in cui mettere a nudo tutta la sua classe… E che dire di Paice? Un nuovo modo di suonare la batteria… mentre accompagna svisa, inserisce rullate stratosferiche, controtempi da panico… Insomma, tutti ad altissimi livelli, niente da dire…
Ma ecco che arriva il vero capolavoro del disco (è un azzardo dire capolavoro della musica rock? direi di no…)… Chi non ha mai ascoltato “Child in time” alzi la mano… Non penso di poter trovare le parole giuste per descrivere questo brano… direi che ‘poesia’ sia quella più adatta… è l’organo di Lord ad introdurlo (e a dirla tutta le polemiche riguardo il presunto plagio di un brano degli It’s a beautiful day non sono poi così insensate… ascoltare per credere…), prima che Gillan canti una struggente strofa… ma il brano va in crescendo, in una maniera spettacolare, ed ecco che il singer inizia ad ‘ululare’ la melodia della voce, prima di iniziare ad urlare, ed urlare, ed urlare ancora, sempre più in alto, sempre più sofferente… ascolto questo disco da ben 25 anni, e vi assicuro che ogni volta che arrivo a questo brano mi viene la pelle d’oca, e non sto scherzando… al culmine la band irrompe, con un ritmo ‘bolerato’, prima che parta uno degli assoli più belli della storia chitarristica di Blackmore, che dopo un’intro melodica si lancia in scale fulminanti… è ispiratissimo, e se si ascolta con attenzione le note a valanga che sputa fuori dalla sua Gibson 335 (si, ancora la utilizzava di tanto in tanto…), ci si accorge di come tutto abbia un senso melodico ben preciso, di come l’assolo sia costruito alla perfezione… e proprio sul più bello ecco che il rigido Lord lo richiama all’ordine con la frase che spettacolarmente chiude il tutto per far ripiombare il brano nella calma da cui è nato… La struttura si ripete, come all’inizio, organo, strofa, e Gillan sulla cattedra, prima che il gruppo impazzisca del tutto nel finale… vero e proprio chaos controllato, come solo i grandi possono generare, con Gillan letteralmente impazzito, isterico, posseduto…
Immaginate la faccia basita del ragazzo di cui parlavamo prima quando a questo punto è arrivato alla fine del lato A… avrà il coraggio di girare il vinile? Se lo avrà, verrà assalito dalle note di “Flight of the rat”, brano dallo spiccato sapore funky (da sempre una delle influenze maggiori del gruppo). Ancora una volta riff roccioso, con Glover a tessere trame di basso di gran gusto, Lord a fare da tappeto, e Paice come al solito… anche se la coppia vincente è proprio quella Blackmore/Gillan, che da qui a metà del ’73 infuocheranno i palchi di tutto il mondo con i loro spettacolari duetti… Ma ascoltate i fraseggi di Blackmore… non semplici riff bicorde, ma qualcosa che fino ad allora non si era mai ascoltato… Purtroppo il suo lavoro è sempre stato sottovalutato, a favore di molti suoi colleghi decisamente più famosi, ma se vogliamo meno geniali, questo è sicuro… Stupenda come sempre la parte centrale dedicata agli assoli di Lord, vero è proprio gentleman dei tasti d’avorio, con un gusto melodico esagerato, ma anche geniale al punto giusto, e di conseguenza ‘pazzoide’, come tutti i geni devono essere… e verso la fine del brano, dopo l’ennesimo splendido assolo di Blackmore, c’è spazio anche per Paice, e la sua famosa locomotiva, in partenza dopo che l’occhialuto drummer ha martoriato la sua Pearl…
“Into the fire”, invece, nella sua semplicità fa capire come i nostri non abbiano mai perso il senso della ‘canzone’, e in pochi minuti siano riusciti a metter su un ottimo e granitico brano bluesato, semplice ma efficace, nel quale Gillan può ancora una volta dare libero sfogo alla sua ugola d’oro e Blackmore dimostrare ancora una volta quanto fosse avanti rispetto ai suoi colleghi più blasonati (Page, Beck, Clapton e via dicendo), sia in fase di riffing che, soprattutto, in fase solista, riuscendo a far convivere la tecnica (che per l’epoca era decisamente avanti) con un gusto musicale non comune.
Stesso discorso per “Living wreck”, introdotto dall’acidissimo Hammond di Lord, che almeno in quest’occasione riprende le redini del gruppo, prima però che il riff di Blackmore irrompa, ancora una volta, prepotentemente… Un nuovo modo di intendere la ‘canzone’, sempre magari con la struttura riff-strofa-ritornello-storfa-assolo-ritornello, questo si, ma reinterpretata in maniera nuova, fresca e soprattutto con uno stile decisamente personale. Sentite gli assoli, le melodie di base, il modo spettacolare in cui suonano e si incrociano Glover e Paice… niente è fatto nei canoni, tutto è stravolto ma al tempo stesso ragionato…
E che dire del riff ‘cavalcato’ di “Hard lovin’ man”??? Quante metal band hanno in futuro utilizzato questa tecnica sulla chitarra? Certo, indurita, velocizzata, questo si, ma ricordiamoci sempre che siamo nel 1970… Blackmore ha dato le basi, è innegabile… Gillan continua ad urlare, è dall’inizio del disco che lo fa, Lord continua ad inacidire il sound (spettacolare l’assolo, viene quasi voglia di spegnere tutto per quanto ti si insinua nella testa…), e i due ‘comprimari’ continuano a martellare…
E come si è aperto, così il disco si chiude, nel chaos più totale, con Blackmore che riprende a seviziare la sua Strato, in piena crisi hendrixiana, e con uno splendido lavoro di Martin Birch, tanto semplice quanto geniale (in realtà si tratta solo di un gioco di fadeout fatto sui canali dx e sx del mixer, ma l’effetto è splendido…). E dopo tanto ‘rumore’, finalmente la quiete, e il nostro ragazzo può rinfilare l’LP nella copertina di carta e poi in quella rigida di cartone, riguardarsi il disegno, e chiedersi se ha sognato o se è stato tutto reale… Gli basterà riascoltare il tutto per rendersi conto che si è trattato della seconda opzione…
Da oggi la sua vita musicale non sarà più la stessa… Questo disco ha dato le basi per due decenni di musica almeno… tutto l’hard rock non può prescindere da “In rock”, così come buona parte dell’heavy metal (Iron Maiden in primis, per non parlare di tanto power e della famosa ondata di guitar hero degli anni ‘80…). E la cosa bella dei Deep Purple è che per loro non si è trattato di un episodio isolato, ma solo del primo di una lunghissima serie di capolavori, che ancora oggi non accenna ad interrompersi (e stiamo parlando di 40 anni di musica, mica cazzi…). Signori, chi non ha questo disco nella sua discografia può anche darsi a Raul Casadei, perché vuol dire che di rock, di metal, ma oserei dire di MUSICA, non ha capito una beneamata ceppa… “In rock” è la Bibbia, e non si discute…