Enigmatici fin dal monicker e dal chilometrico titolo del loro primo full-length, i veronesi
Carnera FM vantano un curriculum live decisamente corposo e variegato, evidentemente propedeutico alla realizzazione di un disco d’esordio assai personale, maturo e intelligente (presentato, per di più, con una completezza e cura “promozionali” veramente esemplari!).
Le liriche in madrelingua del gruppo veneto rappresentano senza dubbio un rilevante punto di forza della loro prestazione, apparendo come dei piccoli spaccati di cruda poesia “urbana”, fatta di apparentemente stralunati racconti di vita che esprimono molto di più in termini di critica sociale di tanti testi-slogan naif e magari pure un po’ demagogici (una situazione che, a onor del vero, viene lambita dalla breve dichiarazione “d’intenti” del gruppo, presente sulla quarta di copertina del booklet!).
Trattandosi di un Cd e non di un componimento esclusivamente narrativo, da sola la “parola” non sarebbe stata sufficiente a garantire un risultato di livello, ma anche sotto il profilo musicale i nostri dimostrano di essere fertili nelle idee e dotati nei mezzi necessari per realizzarle.
Il rock dei Carnera FM trae linfa vitale dalle antiche ed immortali radici del reggae, del funk, del jazz e del rhythm ‘n’ blues e le “imbastardisce” con le sonorità del punk (quello, in qualche modo, più “colto”, arrivando a carezzare derive di post-punk) e del pop inglese, ammantando il tutto con una sensibilità malinconica e crepuscolare di notevole suggestione.
Tra i loro modelli citano, non a caso, The Police, The Clash e The Smiths, in compagnia dei magistrali The Velvet Underground e a me personalmente l’ascolto di “Avrò fin troppo tempo …” ha anche ricordato in lontananza qualcosa dei The Jam, dei Television e dei Tortoise, se non altro per la capacità della band di omaggiare e dissacrare contemporaneamente le importanti fonti stilistico-attitudinali cui rivolgono il proprio ammirato sguardo artistico.
Le atmosfere noir-ska (?!?) di “Gesù ha un kalashnikov in mano”, tra Madrugada, The (English) Beat e Santa Sangre, rappresentano senza dubbio una delle occasioni di spicco dell’albo, seguita da “Il futuro è finito tanto tempo fa” e “Le piante non tradiscono”, momenti di intrigante musicalità e acuta verve polemica, dalla più “rumorosa” “Quelli come noi non sanno vivere”, dal funky vivace e obliquo di “La mia ragazza è sempre sola” (con un riff chitarristico vagamente alla “Long train running” dei Doobie Brothers) e dalla “spensierata” e diretta “Voglio averti anche domani”.
Nonostante il buono fin qui espresso dal programma, ritengo, però, che il meglio del dischetto sia concentrato nella sua porzione finale, ovvero nell’avvolgente, elegante e ipnotico tocco notturno di “Valentina” (al sax l’ottimo Carlo Poldi) e nella suggestiva coppia costituita dalla title-track e da “Il mio cuore è un posto terribile” (preziosa la prova vocale dell’ospite Giorgia Quaggiotto), confezionata con un tessuto la cui trama non può che evocare vividamente quella del leggendario “Velluto Sotterraneo”.
Tra l’inquieto romanticismo e il radicale, il rock italico può contare su un’altra solida realtà, al tempo stesso visionaria e pragmatica e su tutto, parecchio affascinante.
Speriamo che le sia concesso lo spazio che merita e che riesca a superare la miopia “congenita” di troppi addetti ai lavori e di una buona fetta del pubblico di settore, spesso eccessivamente distratto da fatue “sirene” internazionali e da sterili facezie nostrane.
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