Bello il monicker, suggestivo l’artwork, enigmatica la frase che, tramite le funzionalità del Cd-text, si compone con lo scorrere dei pezzi del dischetto (
Viaggia nello spazio cercando vendetta, addormentandosi senza sapere chi è l’altro. E’ un sasso o un dio? Si sveglia e schiuma dal naso mentre sorride vincente, anche se è un sasso parlante - ?!?) e simpatica è l’idea di dedicare il titolo del primo full-length autoprodotto al nomignolo con il quale affettuosamente i nostri chiamano il fedele registratore cui affidare tutte le loro idee. Un approccio piuttosto favorevole, dunque, quello del sottoscritto nei confronti dei
Reels of Joy, un altro dei tanti gruppi italiani che tenta di abbandonare le umide “cantine” del nostro Belpaese con dosi intense e viscerali di grunge, che in questo caso si spinge fino ai confini dell’hardcore, attraverso irrequiete soluzioni veementi e rabbiose.
L’ascolto attento di “Barakiki II” non spegne del tutto l’istintiva “indulgenza” succitata, ma pone ancora una volta una questione ormai diventata annosa: in una scena ricca e congestionata come la nostra, apparentemente ad un passo dall’
esplosione (e a mezzo dall’
implosione!), può bastare una notevole convinzione, una discreta padronanza degli strumenti e un vivace temperamento musicale imprescindibile dai modelli e tuttavia non eccessivamente riconducibile ai loro dogmi espressivi, per emergere in maniera sostanziale?
Personalmente credo di no, e, anche se le regole del business discografico appartengono alla sfera dell’imponderabile, almeno dal punto di vista artistico ritengo che a tutte queste necessarie qualità sia assolutamente indispensabile aggiungere delle canzoni veramente efficaci, capaci di conquistarti per il pathos, la melodia, il testo magari (tanto più che stiamo parlando di una band che ha scelto il cantato in madrelingua), insomma dei brani che, vibranti e profondi o freschi e contagiosi, sappiano toccare quelle “sottili corde” sensoriali che t’inducono a voler “acquistare” un disco anche in assenza dell’autorevole attrattiva di un nome celebre, e poi conservarlo gelosamente per ascoltarlo, osservarlo, analizzarlo, “viverlo”, un evento sempre meno diffuso in un mondo dove tutto corre (troppo) veloce e la musica giace spesso tristemente in qualche anonimo hard-disk.
Ebbene, i pezzi dei Reels of Joy non possiedono ancora tutte queste prerogative, a volte si avvicinano “pericolosamente” al traguardo (“Macel”, “Blues et tones”, “Lampadae” e “d'Hpo”, dove tensione, catarsi e una sufficiente personalità, rappresentano gli ingredienti di una cospicua profondità espressiva, mentre “Sono tuned” replica con minore sicurezza le medesime frequenze interpretative), altre volte risultano apprezzabili per l’energia e il fervore (“Caffè Borges”, “Cane col riporto”, la furiosa “Trio spuma”) o per i propositi di “duttilità”, che li vede impegnati in fugaci momenti acustici (“Neil” e “Pascoli e cornamuse”, a onor del vero non completamente convincenti alla prova dei fatti), ma su tutto aleggia un velo di “superficialità” nella scrittura che impedisce al disco di “emozionare” (lo so che è un verbo stuprato da un uso smodato e spesso inopportuno, eppure esprime bene il concetto …) in un modo tale da poter considerare chi lo ha concepito già pronto per un “balzo” risoluto e competitivo nella discografia “superiore”.
Come accade ormai sempre più di frequente, anche per i bresciani è doveroso spendere parole d’incoraggiamento per quanto realizzato nel loro debutto, esortandoli a impegnarsi ulteriormente nel fare in maniera che le potenzialità qui emerse si concretizzino al meglio … Forza ragazzi, che troppa “umidità underground” fa male alle ossa …
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