Non vi piacciono il rock-blues, il soul, il funky, il country? Li considerate vetusti e superati? Oltre alla mia
disapprovazione vi siete meritati un consiglio … cambiate immediatamente “canale”, perché le prossime parole sono indirizzate a chi è in grado di riconoscere e apprezzare le ataviche vibrazioni della
roots-music americana, anche se profuse da una band italiana, che, guarda caso, “ruba” il proprio monicker a una canzone dei formidabili Traffic, un’altra formazione non statunitense a cui tali sonorità non erano per nulla indifferenti.
A differenza degli illustri colleghi britannici, i nostri
Shanghai Noodle Factory, però, amano meno le “contaminazioni” e preferiscono navigare nelle acque “pure” del blues elettrico più denso e viscerale, quello portato in auge da gente come Hendrix, Cream, Blind Faith, Gov't Mule, Little Feat, The Allman Brothers Band, Savoy Brown, Steve Ray Vaughan, Free e The Jeff Beck Group, favolosi e vitali epigoni dell’arte “tormentata” concepita da Robert Johnson (qui omaggiato esplicitamente con una notevole rilettura di “Come on in my kitchen”) e dagli altri maestri del delta del Mississippi.
E’ chiaro che i nostri non inventano nulla di nuovo, ma è altrettanto evidente che, a dispetto di superficiali convinzioni, non è per niente semplice suonare questa “roba” e simulare quel pathos
fondamentale per risultare credibili, soprattutto se si è nati a latitudini piuttosto lontane dai territori che l’hanno vista nascere e svilupparsi.
L’interpretazione dei nostri è talmente sentita e autorevole da sembrare davvero il frutto di una “seconda natura”, incurante delle radici “geografiche” (credo che non siano molte le “piantagioni di cotone” tra il Piemonte e la Valle D’Aosta!), espressa attraverso un talento compositivo che s’insinua subdolo e graffiante, malinconico e intenso, e si dimostra in grado d’impressionare i sensi e sviluppare crescendo emotivi anche quando il gruppo ripete a memoria la storia del genere, trasfigurando la mancanza d’imprevedibilità in un trionfo di passionalità tanto familiare e accogliente quanto palpitante, in grado di andare oltre la “mera forma” e sfociare in un ambito decisamente più spirituale e profondo, anche senza sconfessare la sua parte più “carnale”, così importante per la vocazione tipica di questa musica (ricordate “Crossroads”, il film di Walter Hill conosciuto anche come “Mississipi adventure”, in cui il vecchio bluesman Willie Brown-Blind Dog Fulton / Joe Seneca rivela al giovane “Talent Boy” Eugene Martone / Ralph Macchio, l’incentivo ispirativo della “pispola”?)
La fremente e incandescente chitarra di Max Arrigo (buona anche la sua prova come cantante solista nelle irresistibili pulsazioni melodiche di “Hard times are coming” e nella sensibilità acustico - rurale di “The moon is knocking”) sembra dialogare direttamente con la “pancia” e il “cuore” dell’ascoltatore, toccando sempre le corde “giuste”, scegliendo e distribuendo copiosamente le note più adatte alla situazione, e pure lo stesso Diego Tuscano (SanniDei, Elettrocirco) si conferma un vocalist che non ama particolarmente gli “effetti speciali”, ma si esibisce con una misura non esattamente ordinaria (in un universo, quello canoro, che non sempre ricorda l’importanza del feeling), non cantando né “troppo”, né “troppo poco”, con grande calore e trasporto.
Con il fondamentale apporto di una solidissima e impeccabile sezione ritmica e con il gustoso contributo offerto da ospiti “speciali”, quali il chitarrista Joe Pitts, il cantautore Jono Manson e l’armonicista Dave Moretti, gli Shanghai Noodle Factory danno origine a dieci pezzi (compresa “Good morning little school girl”, uno standard coverizzato e rielaborato da moltissimi grandi del settore, qui trattato con la consueta dovizia, eludendo eventuali timori reverenziali) che cancellano il tempo e le infinite (e spesso ugualmente fantomatiche) rivoluzioni che hanno solcato la musica rock, restituendoci una forma d’arte genuina e pura …
tempi belli e tempi duri, tante città, tante canzoni e tante donne … voglio solo che la gente dica di me: quello suona sul serio … e quant’è bravo … (cfr. ancora una volta una battuta di “Crossroads”)… non c’è dubbio che dentro questa band c’è tutto quello che serve per evocare lo spirito più autentico del blues-rock … per chi scrive anche questa è degna di essere definita “musica classica”.
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