Devo ammettere che ero abbastanza curioso di ascoltare l’ultima fatica dei
Sadist. Prevalentemente perché volevo constatare personalmente quanto avessero evoluto il proprio sound in questi ultimi tre anni, decisamente meno per tutti i proclami e le pubblicità fatte per la promozione del disco. D’altra parte non è certo una novità quanto inesatte e spesso pompate siano quest’ultime. Le leggi di mercato sono quello che sono, e chi di dovere, pur di vendere il proprio prodotto, spesso e volentieri mette su un vero e proprio castello di carta destinato a crollare al primo spiffero di vento. Nel caso di “Season in silente” le cose si trovano esattamente nel classico punto di mezzo, nel senso che non ci troviamo di fronte al capolavoro sbandierato ai quattro venti, ma certamente neanche davanti all’appena citato castello di carta. L’ultimo lavoro della band ligure è abbastanza particolare, forse anche troppo. Mi spiego… Un’evoluzione del sound, se volete chiamarla così, c’è stata. Sono nettamente maggiori le parti atmosferiche e più propriamente progressive rispetto a quelle più spiccatamente death. E se è vero che il livello tecnico è come sempre molto alto, il dubbio che mi sorge spontaneo è che l’album sia un po’ troppo progressivo per gli amanti delle sonorità più estreme, e troppo poco prog, (nel senso stretto del termine), per quelli che amano le partiture più moderne e melodiche. In poche parole, ho paura che si trovi in una sorta di limbo amorfo che non riuscirà ad accontentare né gli uni né gli altri. Il che è un peccato, perché pur nella sua complessità compositiva e nella sua poco fruibilità musicale, si tratta comunque di un buon album. Diciamo che rispetto ad altri lavori della band suona molto più Cynic che Atheist, se capite cosa intendo, nel senso che non mi sarebbe dispiaciuta un po’ di sana violenza in più, qualche brano più veloce e furioso, qualche partitura più aggressiva da mescolare, sapientemente, e come solo loro sanno fare, alle parti più “delicate”. Le tastiere ricoprono un ruolo fondamentale, forse come mai prima d’ora, creando tappeti sonori molto cinematografici, quasi da colonna sonora, mentre spesso sacrificata risulta la chitarra, presente, sì, ma non incisiva quanto ci si aspetterebbe. E se il concept messo su da Trevor sull’inverno, una stagione a lui particolarmente cara per i motivi che scoprirete seguendo i testi del corpulento boscaiolo ligure, può essere interessante, non basta a risollevare le sorti di un album che viaggia a corrente discontinua. Non c’è quell’adrenalina che ti sorregge durante tutti i brani, e spesso si percepisce un calo abbastanza preoccupante per la band di Tommy. Certo, inutile sottolineare che anche in questi casi il livello è più che alto, nettamente al di sopra della media dei gruppi che ci sono in giro, ma non abbastanza per essere paragonato allo standard a cui la band ci ha abituati. E se si sorvola su “Aput” e “Hiberna”, un intro e un outro acustici e d’atmosfera, il disco inizia in maniera alquanto anomala, con “Broken and reborn”, un brano forse troppo sottotono per essere messo in apertura. Le cose migliorano nettamente con la successiva titletrack, decisamente più accattivante, e con “Evil birds”. Non particolarmente convincente, invece, lo strumentale “Ogron”, mentre decisamente migliori risultano “Snowman”, “Bloody cold winter” e “Frozen hands”. Insomma, come avrete capito, non c’è la continuità che era lecito aspettarsi dai Sadist, con brani decisamente di alto livello che si alternano ad altri meno incisivi. Certo un piccolo calo creativo ci può stare nella carriera di un gruppo, specie dopo tanti anni di attività. Spero solo si tratti di un episodio e che per il prossimo album i nostri ritrovino la forma smagliante a cui ci hanno da sempre abituati.
PS: qualcuno ha notato, nell'elogiare l'effettivamente bella copertina, che il pupazzo di neve è lo Snowman della serie "Twisted Christmas" di McFarlane? Citazione, ispirazione, o qualcos'altro di meno lecito? Bisognerebbe chiederlo a Nerve Design che si è occupato dell'artwork...
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