Gli
Annihilator sono l’esempio più lampante di band che ti fa incazzare come una iena, per quello che avrebbero potuto fare e, non si sa per quale assurdo motivo, non hanno fatto. Se è innegabile, infatti, il valore assoluto di un capolavoro come “Alice in Hell” e del suo degno successore “Never, neverland”, è altrettanto vero che poi il genio di Jeff Waters, salvo picchi isolati, è andato pian piano scemando negli anni, alla ricerca assurda di un sound più rock, a discapito dei voli pindarici techno thrash dei primi album.
Quando ho iniziato ad ascoltare questo nuovo lavoro, omonimo, i bestemmioni si sono sprecati, perché le prime note dell’opener “The trend” non facevano presagire nulla di buono. Per fortuna è stato solo un inganno durato pochi secondi, perché poi la canzone, e l’album tutto, mi hanno letteralmente spiazzato, visto che mi hanno riconsegnato i miei amati Annihilator a livelli degni del loro nome e del genere che hanno contribuito a creare. Certo non stiamo ai livelli dei due album prima citati, però vi assicuro che questa volta le canzoni funzionano, anche quelle, immancabili, più rockeggianti o più sperimentali, e a parte un paio di cali qua e là il disco si mantiene su un livello più che buono. E poco importa se nella già menzionata “The trend” il buon Jeff si autocelebra con un richiamo ad “Alison Hell”, o se a un certo punto spuntano fuori un riff assolutamente slayeriano (“Ambush”) o un altro un po’ troppo simile a quello di “Holy diver”, tutto sommato possiamo perdonarglielo, visto il livello dell’album.
Altra cosa che mi preme sottolineare è l’ottima prova di Dave Padden, che ormai sembra essersi integrato perfettamente nella band, e non sembra più il ragazzino spaesato dei primi tempi, a suo agio sia nelle parti più aggressive che in quelle più melodiche.
Al di là di tutte queste considerazioni fa piacere sentire la band di nuovo picchiare durissimo, come nella “Ambush” di cui sopra, o in quell’altra mazzata sui denti che risponde al nome di “Coward”, ma non sono gli unici due episodi, visto che tutto l’album, salvo rare eccezioni, può vantare un generale indurimento del sound, pur senza perdere mai di vista il gusto melodico che da sempre ha caratterizzato il songwriting di Waters. E sono proprio i riff vorticosi di Jeff a farla da padrone, secchi ed intricati come sempre, così come i suoi 66 (!!!) assoli in sole dieci tracce, assolutamente di gusto, tecnici e melodici come solo lui sa fare, e mai fuori posto.
“Annihilator” è un album strano, che non ti entra in testa al primo ascolto, però bisogna ammettere che cresce con gli ascolti, se non altro perché dopo 4-5 volte che lo si riascolta è possibile apprezzare meglio tutte le sue sfumature, le sue armonizzazioni, anche se al tempo stesso ci si rende conto di come almeno 2 o 3 brani non siano al livello degli altri. Sicuramente niente di eccessivamente brutto, però resta l’amaro in bocca perché si sarebbe potuto fare qualcosina in più, per esempio in “25 seconds”.
Per farsi perdonare, però, il buon Jeff si gioca una carta sicura, e cioè la cover, posta in chiusura, di uno dei brani più belli ma al tempo stesso più sottovalutati dei Van Halen, la splendida “Romeo delight”, qui riproposta in maniera superlativa, visto che il gruppo è riuscito a non discostarsi più di tanto dall’originale, pur inserendo delle parti personali che non hanno snaturato il senso originale del brano.
Insomma, in definitiva “Annihilator” è un buon disco, che non fa sicuramente gridare al miracolo, ma che non merita nemmeno eccessive detrazioni, visto che suona genuino e visto che ci riconsegna una band per troppo tempo rimasta in secondo piano. Sono sicuro che i vecchi fans di Waters e company apprezzeranno, e non solo loro…