I
Korn sono ancora in giro, nonostante le vicissitudini degli ultimi anni che hanno portato all’abbandono dello storico chitarrista
Head, e questa potrebbe essere considerata da molti una buona notizia. E lo sarebbe davvero se i
Korn producessero dischi all’altezza della loro fama, fama adamantina con i primi 5 dischi, rispetto ai quali poco o nulla si può eccepire.
Il nuovo “
Korn III: Remember Who You Are” già dal titolo sembra una presa in giro. Dopo le non esaltanti esperienze degli ultimi dischi, rispetto ai quali si è assistito ad un lento ma costante declino, la band ha dichiarato di voler tornare alle origini e, forse, il “ricordati chi sei” si riferisce proprio a sé stessi, per ricordarsi di essere una delle, se non la, più influente band del metal moderno, al punto che pur avendo praticamente dato vita ad un genere e influenzato centinaia, se non migliaia di bands, ancora oggi, nel 2010, non c’è nessuno che suoni come i
Korn, nessuno che sia riuscito a rubare precisamente la loro alchimia.
Il problema è che i
Korn hanno dimenticato chi sono, sebbene facciano finta di volersene ricordare. Sebbene diano vita ad una sorta di operazione nostalgia, dichiarando di voler tornare al suono dei primi due dischi, affidandosi alla produzione di
Ross Robinson, il guru di un certo suono modernista, e pubblicando per la
Roadrunner Records, la quale, tuttavia, non è più l’etichetta di un tempo, avendo smarrito la bussola da un bel pezzo, e trasformandosi in una sorta di Re Mida al contrario, visto che le sue ultime produzioni (parlo di almeno dell’ultimo lustro) non sono assolutamente all’altezza della storia dell’etichetta, nonostante le vendite in crescendo; dicevo, a dispetto dell’operazione nostalgia, il risultato è alquanto altalenante.
In passato, bastava il semplice riff iniziale di una qualsiasi canzone dei
Korn per trasmettere tutto un universo emozionale che destava nell’ascoltatore sentimenti contrastanti, che potevano andare dalla rabbia alla paranoia, trascinandolo in un mood assolutamente malato. I
Korn erano una sinfonia, la malata schizofrenia di
Jonathan Davis e le sue turbe psicosessuali, il riffing cattivo e inquietante della coppia d’asce
Munky/
Head, il basso pulsante e groovy di
Fieldy, il ritmo contorto e spaiato del drumkit di
David Silveira. Il risultato era sconvolgente.
Ecco, tutto quanto sopracitato è assente (o quasi) nel nuovo disco. Sprazzi è possibile intravederne solo nel nuovo singolo “
Oildale (Leave Me Alone)”, in “
Move On”, che rimanda al capolavoro “
Justin”, e in “
Are You Ready To Live?”.
Il resto galleggia su un’ordinaria mediocrità, dove la band non riesce mai fino in fondo ad essere cattiva e/o malata e/o energica, tutte componenti presenti nel suono originale della band.
Nel disco c’è molta melodia, ma è melodia facilotta, “
Fear Is A Place To Live” vorrebbe quasi rifare il verso a capolavori come “
Freak On A Leash” o “
Got The Life”, ma non raggiunge il risultato sperato.
Persino quando la band cerca il pezzo sofferto e malato, come nella conclusiva “
Holding All These Lies”, non riesce a raggiungere le vette di “
Daddy”, sebbene
Jonathan Davis si metta a frignare in maniera isterico/paranoica come suo solito. La canzone parte con un riffing serrato e vorrebbe risultare cattiva, ma l’unica cosa che si salva è la strofa dove dice “
Truth Is Pain”, che ci fornisce un imperdibile assist.
La verità fa male davvero, e la verità è che i
Korn sembrano non avere più nulla da dire. Certo, si potrebbe obiettare che nessuna band storica ha rivoluzionato la musica due volte, ma, al tempo stesso, è lecito chiedere musica di qualità, veramente sentita e con la scintilla compositiva. Tutte cose che mancano a questo disco.
I fan sicuramente continueranno a supportare i
Korn e a comprare i loro dischi, i
Korn stessi continueranno a mantenere la loro unicità, ma ad oggi non c’è veramente bisogno di un nuovo disco dei
Korn.