Progetto interessante quello proposto dai
Greenhouse Effect, impegnati nel musicare, forti del loro post-rock fortemente suggestivo, dilatato, cupo e onirico, le parole scritte e
disegnate da Josè Monti nel suo secondo romanzo intitolato per l’appunto “Ho sognato d’esser vivo”.
Il tema del sogno, o per meglio dire del “sogno lucido” (“[…]
esperienza durante la quale si può prendere coscienza del fatto di stare sognando […]”), strumento fondamentale utilizzato dall’autore per la cronaca delle sue favole moderno / metropolitane (
“Questa bizzarra favola illustrata è il frutto di studi ed esercizi durati due anni sul sogno lucido … non è altro che un diario il quale descrive un sogno lucido iniziato, interrotto e ripreso nell’arco di ventiquattro mesi per sfuggire alla quotidianità della vita”) è certamente assai intrigante, così come parecchio affascinante appare lo stile grafico utilizzato dall’autore, in cui la parola stessa diventa, affiancata alle surreali illustrazioni e abilmente modellata tramite l’uso del carattere e della sua dimensione (in un’ottica
simil- futurista), parte integrante della vivida dimensione immaginativa che alimenta queste storie magari un po’
naif nel loro onere
morale e pure vagamente
sconclusionate nel loro schema narrativo, ma sicuramente di godibile lettura e di condivisibile valore nei contenuti essenziali.
Il ruolo insostituibile della creatività e della passione, impulsi talvolta talmente violenti e irrazionali da essere considerati
paranoia e
far tremare la terra (eccola la vera origine dei terremoti!), ispirato da personaggi reali, è, infatti, senz’altro più stimolante delle sporadiche critiche sociali un po’ scontate che fanno capolino in una trama popolata di cicogne che falliscono nel loro compito istituzionale (la consegna dei bebè, ovviamente!) e che, angariate da capi senza scrupoli, si deprimono e affogano i dispiaceri in alcol e stupefacenti (mentre le loro colleghe vengono sostituite da pennuti cinesi e vietnamiti meno costosi e più efficienti!), di
nonnine / streghe, di infermiere che vengono chiamate a prestare la loro opera in ospedali psichiatrici frequentati da gatti, fotografe ossessionate dai
dettagli, da
hippies / zingari e da geniali scultori
punk, artefici di organismi
biomeccanici frutto del riciclaggio, in uno scenario gravido di energia creativa, il tutto rappresentante un mondo in qualche modo
folle perché
alieno alle logiche del consumismo e del potere.
Il libro è ovviamente più ricco e articolato di come l’ho brevemente e approssimativamente descritto, e invito i nostri lettori a tentare di districarsi nei suoi singolari meandri, anche perché, ed arriviamo finalmente all’aspetto che normalmente trattiamo da queste parti, la
colonna sonora congeniata dall’abile quintetto padovano risolve l’arduo impegno con suggestive partiture strumentali piene di dramma, tensione, serenità, immaterialità e scintille cinetiche, le stesse che già avevamo rilevato nel loro precedente albo “Al mio risveglio” registrato live al Teatro Le Maddalene.
Il clima generale del libro sembra aver stimolato positivamente un’attitudine già assai
predisposta, e la fibra interiore delle composizioni, ora malinconica, ora in “sospensione”, capace di fluire rilassata e sussurrata o tesa ed amniotica e così svelare panorami visionari in grado di trasportare l’ascoltatore e condurlo in un universo contemplativo in cui la meta non è mai prestabilita, piace come commento al testo, ma
rischia seriamente di vivere in maniera autonoma anche quando la si svincoli da esso, obiettivo gratificante per chiunque si cimenti in un’operazione del genere.
Mutuando una delle succitate tesi espresse dal
regista dell’intera opera, durante l’ascolto di “Ho sognato d’esser vivo”, la
terra non ha tremato come quando sono l’inventiva e la verve evocativa di Mogway, Explosions In The Sky, Giardini di Mirò e Oceansize a sollecitare sensi e cervello, e tuttavia posso tranquillamente affermare che una piccola
scossa, già sufficientemente intensa, è stata nitidamente registrata dal mio sismografo emozionale.