Della serie anche i migliori a volte possono “toppare”,
ladies and gentlemen, eccovi “Shift” di
Jon Mullane, patrocinato dall’autorevole Escape Music.
Beh, forse l’introduzione è fin un po’ troppo severa, ma nutrivo ben altre aspettative per la prova di questo multi strumentista canadese, a me sconosciuto (la speranza iniziale, però, benché priva di dati effettivi a suffragio, era di assegnare al nostro un ruolo da
Adult Rock Hero alla Paris, Kimmel, Cua, Burtnick, … che delusione …), eppure sostenuto da una fama “casalinga” di discreto livello e da un paio di “volti noti” quali Creighton Doane (anche coadiutore alla stesura del disco) e Pete Lesperance degli Harem Scarem in grado di fornire garanzie di affidabilità e credibilità nel loro ambito di competenza.
I fatti parlano fondamentalmente di un dischetto di “pop energizzato”, infarcito di elettronica
facilotta, raramente sconfinante nell’hard melodico, cantato da un buon “mestierante” del settore, dotato di una laringe più che dignitosa e competente e tuttavia piuttosto lontana dal poter conquistare le vette delle classifiche “specializzate”.
Il disco non è “orribile”, sia chiaro, la sua fruizione non importuna oltremodo e alcuni dei pezzi che lo compongono potrebbero anche trovare una loro collocazione nelle programmazioni radiofoniche “generaliste” con orientamento rock-
eggiante, in virtù di un bel tiro e di linee melodiche sufficientemente adescanti, ma ritengo che neanche gli estimatori del genere potranno essere colpiti
irrimediabilmente dalla performance del nostro Jon, incapace di realizzare una
hit che possa veramente definirsi tale e così entrare davvero a far par parte di quel mondo così “effimero” e modaiolo.
Troppo superficiale da un lato e probabilmente troppo poco
cool dall’altro, Mr. Mullane rischia di scontentare un po’ tutti, anche se “Make you move” (superflua la versione “Move mix”) fa battere il piedino e si lascia ascoltare come se gli ultimi U2
jammassero con gli Human League, “Got it goin' on” ricorda un po’ le movenze di uno
sbiadito Lenny Kravitz, “Sin city”, il singolo che dovrebbe fare la differenza, finisce per evaporare dalla memoria senza “danni” né positivi né negativi, mentre “Missing time”, con la sua profusione di synth, e “Here we go”, sorta di frutto di un
platonico flirt tra Andrew W.K., Billy Idol e Rick Springfield, potranno trovare degli ammiratori solamente tra i meno esigenti dei
musicofili.
Alla fine, forse, sono la
familiarità della ballatona soul-
esque “The one that got away”, il tocco malinconico di "Change your life” e la trama a “presa rapida” di "Go the distance”, aromatizzata da un apprezzabile spessore espressivo, a rappresentare le situazioni maggiormente appetibili per il mio gusto uditivo, per un lavoro in ultima analisi decisamente
inoffensivo, compresa una sezione multimediale (il video di “Sin city”, ben poco “peccaminoso”, l’asettico filmato “Behind the music”, le versioni in Mp3 dei brani del Cd e i loro testi) essenzialmente ininfluente sulla votazione finale.
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