Giorgio Gaber, Piero Ciampi e Luigi Tenco, i La Crus e i Santa Sangre, i CCCP e i canti popolari di protesta politica e sociale, è un po’ questo il “microcosmo” musicale e concettuale in cui si muove Guido Rolando, in arte
Giubbonsky, un artista francamente sorprendente per il modo in cui manifesta un malessere evidentemente assai sentito (e condivisibile!) senza pretese di “verità assoluta” o il ricorso a quegli slogan da “volantino sonoro” tanto roboanti quanto retorici.
Un cantastorie (come ama definirsi il nostro), insomma, capace di manifestare il disagio e toccare temi fondamentali come precarietà, sicurezza, razzismo, criminalità e consumismo esasperato, attraverso una poetica e una capacità critica lucide e spietate ma anche ammantate di quel pizzico di amara ironia e leggerezza tali da rendere il “racconto” un’entità autentica e affascinante, la rappresentazione di un’urgenza comunicativa basata sull’analisi del “reale” e del quotidiano, priva di eccessivi conformismi e di luoghi comuni oltremodo sterili.
Un disco completamente autoprodotto (promosso e distribuito dalla (R)esisto Distribuzioni) in cui la “parola” ha ancora un grande potere: conduce a riflettere su quello che ci circonda ed esprime la sincera ambizione per un mondo “diverso” (magari, ahimè, leggermente utopico) che si svincoli dalle regole ferree del profitto e rivaluti i sogni e le passioni dell’essere umano.
Il tutto avviene, come anticipato, per mezzo di strutture armoniche pregne di atmosfere liquide, agrodolci, notturne e
jazzy (vedasi la bellissima e vibrante “Rio preca” o anche il soffuso e gustoso
ballabile “Flatulente”), che flirtano spesso con il folk (“Terra perduta”, “Non lavoro”, l’intensa “Gelato in febbraio”), citano esplicitamente le
ballate country (“Città blindata”), e sanno palesare anche influenze più ampie e
singolari (“Carpe diem” appare animata dal rock metropolitano di Lou Reed diluito nell’approccio interpretativo dei Nomadi, in “Senzacqua” affiorano barlumi elettronici e l’estetica evocativa di Ferretti & Zamboni, mentre in “Forza mafia”, sembra di scorgere addirittura vaghe scorie di Everlast).
“Storie di non lavoro” rappresenta una “voce” pacata (non c’è bisogno sempre di urlare ...) e risoluta nel silenzio di un imperante
qualunquismo, un segno di “presenza” in cui si possono riconoscere tutti quelli che credono che la società attuale abbia raggiunto un livello di prevaricazione, superficialità e negazione dei diritti davvero preoccupante.
Io sono tra quelli.
Non è ancora stato scritto nessun commento per quest'album! Vuoi essere il primo?