Nel sud degli Stati Uniti i gruppi hard rock/stoner sono diventati negli ultimi tempi più numerosi dei cactus. Sarà il vento che soffia dal deserto o la tradizionale attitudine ostinata dei rednecks, ma da quelle parti amano ancora suonare forte, duro e senza tanti fronzoli.
Certamente bisogna saper scremare la roba valida dalla massa dei mediocri, ma per chi è sul posto è sufficiente girare per i locali ed ascoltare il passaparola della gente e si intuisce subito chi merita veramente attenzione.
La Small Stone è diventata esperta in questa ricerca, così si accaparra le formazioni migliori con l’effetto non trascurabile di apparire come l’ultimo dei baluardi del vero rock, una specie di riserva per razza in via d’estinzione.
Buon per gli amici di Detroit, che ora esibiscono la loro ultima scoperta: Throttlerod.
Il quartetto è originario del Sud Carolina ma in seguito si è trasferito in Virginia, territorio dei loro amici Alabama Thunderpussy, ed alle spalle vantano un debutto per Underdogma (“Eastbound and down”, 2000) ed il consueto tirocinio di partecipazioni a compilations e miriade di concerti in giro per gli States. Le coordinate del loro stile sono facilmente individuabili: sano e schietto hard rock interpretato alla maniera della moderna scuola ai confini stoner, vedi Sixty Watt Shaman o Roadsaw. Tiro potente e massiccio, energia esplosiva con pennellate southern, belle canzoni con personalità ed anima ben delineate.
Chi ha presente i lavori di Dixie Witch o Scissorfight non sarà sorpreso dal tonnellaggio poderoso ed allo stesso tempo dal groove infernale di “Marigold” o dall’incedere tellurico della Motorediana “In the flood”, roba per schiantarsi un po’ nelle pareti della vostra cameretta.
I Throttlerod non saranno mai una band da prelibatezze strumentali o arabeschi stilistici, questi badano al sodo con sincerità commovente, però la loro tecnica è solida e convincente, oltretutto degnamente evidenziata dall’ottima produzione di Andrew Schneider, già all’opera con i Milligram di “This is class war”.
Ottima la voce di Whitehead ( ricorda Craig Riggs dei Roadsaw ), grintosa e duttile com’è tradizione dei Sudisti, buono anche il suo disimpegno dove necessita un po’ di aspra melodia o vere e proprie carezze, vedi il lentaccio acustico “Been wrong”.
L’album non annoia in alcuna fase perché le canzoni mostrano sempre un volto diverso, sia esso una vaga somiglianza agli ultimi C.O.C. (“Tomorrow and a loaded gun”) oppure la sembianza di bulldozer southern-metal da far impallidire Blackfoot e Molly Hatchet (“Whistlin’dixie”,”Across town”).
Alla fine, per non scontentare proprio nessuno, il gruppo piazza uno stupendo episodio articolato (“Honest Joe”) che tra rarefazioni bluesy, cavalcate impetuose simil-metal ed assoli lancinanti e tracimanti, chiude alla grande questo disco.
A seconda dello schieramento di appartenenza, alcuni parleranno di album strepitoso e di nuova rivelazione hard rock ( o southern…o stoner..), altri lo liquideranno come ennesima retrò-band divertente ma per nulla innovativa. A me interessa soltanto godermi la forza vitale di questa band, ascoltare e riascoltare il loro ottimo disco ed immaginarmeli sul palco a dilaniare gli amplificatori. Ennesimo colpo della Small Stone, ennesimo successo.
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