Siete appassionati di AOR? Quello “classico”, privo di contaminazioni e “modernismi”? Se la risposta è
orgogliosamente affermativa, non fatevi sviare da una denominazione e da una copertina piuttosto anonime e procuratevi immediatamente una copia di “Undivided” dei
Moritz, un gruppo favoloso che solo a causa della deprecabile convergenza tra l’ingratitudine tipica della loro patria e la miopia del business musicale internazionale, non ha avuto la possibilità di competere ad armi pari con i campioni del settore.
“Figli” del Regno Unito (la nazione che fece fatica a riconoscere addirittura il talento sfavillante degli Shy, tanto per rimanere in tema …), formati nel lontano 1986, i nostri riescono solo oggi, dopo molti tentativi, a dare alle stampe il loro primo vero full-length ufficiale, da considerare, in qualche modo, una sorta di
lost gem del periodo aureo del genere, vuoi per la storia della band, per la registrazione abbastanza “ovattata” e per la sgargiante rilettura dei “mitici” suoni adulti di stampo yankee, attuata nel pieno
rispetto dei sovrani del genere, ma anche talmente brillante dal punto di vista tecnico-compositivo da non temere il confronto con entità ben più affermate e fortunate.
Accade, infatti, che l’opener “Power of the music” (un titolo che è già di per sé un manifesto programmatico!) si dichiari come uno dei più sentiti e intriganti omaggi all’arte inarrivabile dei Boston mai ascoltati da parecchio tempo a questa parte, che la title-track svetti per una forma di raffinata e adescante dinamicità ereditata direttamente dall’irresistibile forza espressiva di Survivor e Toto (ah, quelle pulsazioni del piano!) e che “Should have been gone” si giovi di un gusto evocativo e romantico che rimanda repentinamente a Journey, FM e Foreigner.
Tanti riferimenti, dunque, anche piuttosto vividi, eppure sono sicuro che saranno in molti a barattare la ricerca spasmodica dell’originalità con una serie di canzoni veramente belle ed emozionanti, specialmente poi in quest’ambito stilistico, dove un certo “rigore” è richiesto e ampiamente apprezzato.
Impossibile biasimare la purezza di “Who do you run to” (con la partecipazione dell’ex-Girlschool Jackie Bodimead) e “Without love”, oppure le tastiere estetizzanti e la linea melodica a 24 carati di “World keep turning”, cristalli preziosi che sembrano
quasi provenire dallo stesso filone che alimenta l’inestimabile e feconda miniera di Journey e Night Ranger, oppure rimanere impassibili di fronte alle ballate “Can’t stop the angels” e “Lonely without you”, alimentate da un pathos vocale tra Rodgers, Eisley, Gramm e Bolton e anche la vibrante effige di sofisticata durezza denominata “Same but different” dimostra l’abilità della formazione nell’ostentare una generosa cultura specifica senza abusarne in maniera fastidiosa e superficiale.
“Anytime at all” e "Never together” (con un pizzico di Styx, Le Roux e Fortune tra gli ingredienti) sono altri episodi assai avvincenti, vivaci ed eleganti, che entrano in circolo con una disarmante facilità, mentre “Can’t get away” ci consente di ricordare l’ottimo e sottovalutato Laurence Archer (UFO, Stampede, Grand Slam), autore di un pezzo vagamente malinconico che sfocia in un refrain d’indubbia suggestione.
Offrire un’occasione di riscatto a chi era destinato, nonostante le notevoli qualità, ad un arbitrario oblio, è un atto di “giustizia” che rende enorme onore ad un’etichetta attenta e competente come l’Avenue of Allies, ma ora tocca a voi raccogliere l’invito che apre questa disamina, per non privarsi di un’occasione di appagamento sensoriale di grande intensità e consentire ai Moritz di abbandonare lo status di “artisti di culto” e conquistare l’attenzione e il ruolo dominante che meritano.
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