Non ci posso credere. Davvero, non riesco a capire come, dopo quaranta anni di carriera, decine di album, centinaia di tour in giro in tutto il mondo, possa una band ancora emozionarmi a questi livelli. Sì, perché per quanto riguarda “Into the wild”, ultimo album dei seminali
Uriah Heep, solo di emozioni si può parlare. Con buona pace di chi li dà per spacciati e pronti per la pensione, Mick Box e soci tornano con un’altra bomba, dopo l’ottimo
“Wake the sleeper” di tre anni fa e
"Celebration", la compilation (con brani registrati di nuovo per l’occasione) di due anni fa, e danno l’ennesima lezione ai pischelli e alle nuove leve riguardo come si scrive un vero album di hard rock. Beh, se “Wake the sleeper” si apriva in maniera terremotante proprio con la title track, questo nuovo capitolo lo fa più in sordina con “Nail on the head”, bellissimo mid tempo che trae un po’ in inganno. Se l’inizio non sembra dei migliori, dopo pochissimo arriva il ritornello e si capisce che la band ha ancora voglia di fare sul serio, piazzando un altro dei suoi classici brani potenti e melodici. E a ribadire il concetto ci pensa la successiva “I can see you”, veloce e spudorata come piace a noi. La band è in gran spolvero, con Box particolarmente ispirato in fase di riffing e il “nuovo” ingresso Russell Gilbrook a trascinare il tutto avanti con la sua batteria, insieme al fido Trevor Bolder, altro vecchiaccio della band. E che dire di Bernie Shaw? Date un’ascoltata alle melodie che tira fuori dalla sua ugola, sapientemente sostenute dagli ottimi cori, ad opera di tutta la band, da sempre fiore all’occhiello degli arrangiamenti degli Uriah Heep. Altro giro altra corsa, e altro piccolo inganno. Se infatti la title track ha un inizio che non sembra entusiasmare, bastano pochi secondi per riportare le cose al proprio posto, con un altro brano che sprigiona classe da ogni poro. E se “Money talk” può essere più transitorio, con “I’m ready” si torna ad altissimi livelli, con l’hammond di Phil Lanzon a fare da tappeto al solito Shaw, che sfodera un’altra prestazione da paura. “Trail of diamons”, invece, fa uscire ancora una volta il lato più intimista della band, che tira fuori dal cilindro una ballad che è poesia pura e fa veramente venire la pelle d’oca, prima di scatenarsi nella seconda parte. E che dire del riff e dell’arrangiamento di “Southern star”? Qualcosa che solo i grandi possono permettersi di fare, e gli Uriah Heep rientrano di diritto tra questi. I cinque arzilli vecchietti di starsene calmi non ci pensano proprio e sfoderano un altro paio di rock spinti, con la successiva “Believe”, ancora una volta con delle melodie vocali da incorniciare, e la più quadrata “Feel”, forse il pezzo leggermente più debole dell’album. Ma con la doppietta finale si torna ad alti livelli, con “T-bird angel”, più leggera e popeggiante, ma soprattutto con la splendida “Kiss of freedom”, altra mezza ballad che pone il sigillo, con un crescendo finale da panico dettato dall’hammond di Lanzon, ad un album che definire splendido è riduttivo. Era da tempo che non mi prodigavo in un track to track, ma il valore di ogni singolo brano è talmente elevato che questa volta non potevo esimermi dal farlo. Gli Uriah Heep sono come il buon vino, migliorano con gli anni, e se alla loro veneranda età sono ancora in grado di uscirsene con album spettacolari come “Wake the sleeper” e “Into the wild”, penso proprio che sentiremo parlare di loro ancora per molto tempo…
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