Oliver Weers è la dimostrazione “tangibile” che programmi televisivi come X-Factor, invisi a molti “puristi” del rock, possono essere un mezzo importante (semmai si potrebbe discutere del fatto che sia ormai diventato l’
unico strumento degno di considerazione all’interno di un certo business “maggiore” sempre più indolente e timoroso) per l’emersione “rapida” di personalità artistiche di valore.
Distintosi nell’edizione del 2007 della versione danese del famoso
talent-show (a quanto sembra soprattutto grazie ad una clamorosa performance su “The show must go on” dei Queen), il nostro ha già all’attivo un prestigioso album (“Get ready”, 2008), alla cui realizzazione hanno collaborato nomi piuttosto noti della scena (Tommy Aldridge, Marco Mendoza e Soren Andersen), mentre oggi torna con un lavoro nuovo di zecca in cui lui è la vera “star” e i suoi musicisti rappresentano un competente team
intereuropeo (il chitarrista è greco …) d’illustri “sconosciuti”.
La voce di Oliver è, in effetti, la protagonista, piace per il suo timbro “classico” e versatile, granuloso, caldo e parecchio espressivo, manifestandosi, volendo fornire una qualche forma di riferimento comparativo, come una sorta d’interpolazione “ragionata” tra le intonazioni di Jorn Lande, Paul Sabu, Tony Martin e J.S. Soto, con qualche scheggia laringea di un Corey Glover (nei frangenti più “groovy”), magari “appena” al di sotto delle qualità
sovrumane che tale “mostro” della fonazione modulata, così ideato, potrebbe garantire.
Musicalmente “Evil's back” scandaglia con un raggio d’azione abbastanza ampio le prerogative dell’hard n’ heavy, non lesinando nemmeno puntatine nel prog e condendo il tutto con un pizzico di “attualizzazione” sonora, in modo da, almeno questa è la mia impressione, tentare la conquista di un pubblico vario ed eterogeneo.
L’operazione è condotta con misura e con un certo gusto e anche se qualcuno potrà contestare una scelta vagamente “opportunistica”, il disco suona fresco e gradevolmente variegato, sebbene lo
spettro di un songwriting un po’ fragile e orientato principalmente all’ostentazione dell’eclettismo del titolare dell’opera aleggi in maniera fin troppo palpabile per la sua tipica natura
ectoplasmatica.
Poco male, perché la title-track ha un bel tiro e può contare su un’affascinante linea armonica velata di dramma e tensione (un po’ alla maniera dei Masterplan), “All my life” è dura nel groove e nella sostanza e pastosa nel refrain (tra Alice Cooper e certe cose di Ozzy) e “Without you” sfodera un pulsante afflato hard-blues di notevole suggestione.
Gli amanti dei suoni leggermente più “moderni” e “commerciali”, troveranno in “Hero” motivi di conforto anche grazie all’ottima prova offerta da Rebecca Armstrong (vocalist degli Stella Blackrose) in questo frangente sodale del sempre bravo Weers e anche la successiva “Need it bad” potrebbe fare breccia nei cuori di tale categoria di musicofili, sedotti da una struttura armonica ariosa e immediata.
“Beautiful rain” è indirizzata agli spiriti romantici (meglio se pure un po’ nostalgici dei
seventies), mentre tocca a “Much too much” riportare il Cd su sentieri più “spensierati” e ritmati, e se “Fighting the mountains” è uno spaccato di proto
techno-prog-metal raffinato e intenso, parecchio appassionante, con la successiva “Devils chain” il clima cambia un po’ nei connotati essenziali ma non negli effetti emotivi costantemente tirannici anche di fronte a questo “strano” caso di effervescente e impetuoso
hard rock-anthem miscelato con suggestivi bagliori progressive, per un risultato magnetico come potrebbero essere, con un “piccolo” sforzo di fantasia, i Queensryche fusi con l’istantaneità del migliore Lenny Kravitz (!).
Ancora buone notizie sul fronte prestanza e impulso hard-blues con l’eccellente “Demolition man”, laddove tocca a “Rainbow star” (un brano che a partire dal titolo sarebbe stato probabilmente apprezzato anche dal buon Dio … R.J. ovviamente …) con le sue atmosfere imbevute di pathos, di crepuscolo e di catartica potenza, suggellare un albo di pregio, che ci consegna un cantante in grado di interpretare un ruolo realmente di spicco se solo, dopo aver attestato le sue indubbie virtù
specialistiche, saprà anche rendere ancora più fluide e intraprendenti le sue composizioni.
E noi? Cosa aspettiamo? Dobbiamo continuare ad “accontentarci” di Mengoni, Becucci o, ancora peggio, di Scanu e Carta?
Che tristezza …