La prima impressione è di avere a che fare con un prodotto fortemente “italiano”.
E non mi sono fatto influenzare dal diffuso senso d’identità nazionale che mi circonda mentre ascolto e analizzo “Diario d’un Uomo Qualunque”, ritrovato appena in tempo per festeggiare adeguatamente i 150 della nostra “unità” (non è
singolare come un popolo tanto diviso e fondamentalmente esterofilo come quello del Belpaese, si trovi poi quasi “magicamente” a sfoggiare con condivisa fierezza il tricolore, a ostentare patriottismo ed entusiasmo nell’esegesi di uno degli inni più snobbati del globo terracqueo?).
Non credo neppure che questa sensazione abbia a che fare con il monicker scelto dai perugini
Red Onions che pure, sebbene “celato” dietro una trascrizione anglofona, ricorda un delizioso ortaggio bulboso di precipua origine calabrese, così ricco di riferimenti simbolici nonché di proprietà benefiche (non ultima quella tipicamente organolettica!), una delle tante eccellenze (in questo caso gastronomiche) di questa nostra “povera patria” (come dice il poeta).
Il motivo di tale percezione è da ricercare nel gusto e nelle generose dotazioni intellettuali che i nostri sfruttano per la realizzazione di un disco capace di impregnare di dense emanazioni cantautorali un vivido immaginario prog-rock (senza l’ausilio di tastiere, però …), rammentando senza fastidiosi eccessi, l’esperienza di formazioni spettacolari come PFM, Osanna, Le Orme, Il Banco Del Mutuo Soccorso (ma anche, per certi versi, anche i conterranei Il Bacio Della Medusa), …, gruppi nati magari da impulsi
allogeni e poi diventati la meravigliosa rappresentazione di un modo di fare musica prettamente e orgogliosamente “autoctono”.
Sostenuti da un concept suggestivo e piacevolmente enigmatico, il quale in forma di “diario”, per l’appunto, attraverso la narrazione delle vicende di un uomo “qualunque” (così definito per la sua natura potenzialmente “reale”), si prefigge di stimolare un’analisi critica sulla grettezza della nostra società attuale, i Red Onions affidano al potere evocativo della “parola” (in grado talvolta di travalicare addirittura il suo specifico “significato”) l’aspetto poetico, mentre è compito delle immaginifiche architetture musicali, tra prog, folk, psichedelia, blues, hard e rock d’autore, completare l’opera di soggiogamento sensoriale, inibito esclusivamente da un cantato non adeguatamente accurato, e comunque un po’ troppo fragile per composizioni così vibranti, imprevedibili e iridescenti.
Un gruppo da seguire con grande attenzione, dunque, una risorsa sagace e fantasiosa che, seppur bisognosa di qualche importante “correttivo” (e qualcosa mi sembra si stia già facendo in questo senso …), sembra possedere i mezzi appropriati e le idee necessarie per contribuire a mantenere viva la grande tradizione del genere, fornendoci così un (altro) motivo concreto per essere fieri nella nostra (troppo) spesso bistrattata nazionalità.
Tra i brani più efficaci, la title-track, “Night time blues” (l’unico in inglese, lingua che evidentemente aiuta a mascherare le imperfezioni canore), “Epitaffio per la prima morte di un sogno”, la liquida “Disarmonico allegro” e, al netto d’impasti vocali davvero perfettibili, la bucolica “Occhio del giorno”.
Non è ancora stato scritto nessun commento per quest'album! Vuoi essere il primo?