Ascoltare un nuovo album degli
Ulver è un po' come aprire un regalo a sorpresa. Da diversi anni ormai, il combo norvegese ci ha insegnato ad aspettarci qualsiasi cosa dalle sue produzioni in studio; e in questa occasione c'è anche il contributo compositivo del nuovo "lupo" inglese, ovvero il talentuoso Daniel O'Sullivan (già noto per ed impegnato in svariati altri progetti musicali) a confondere ulteriormente ogni ipotesi.
L'opener
February MMX, già diffusa con ampio anticipo rispetto all'uscita del disco, lasciava presagire una svolta quasi pop e solare; il brano è effettivamente molto dinamico e orecchiabile, ma giustamente si è trattato di un'illusione fuorviante.
Le tracce successive, infatti, smorzano immediatamente i toni, attestandosi su sonorità molto più cupe e decadenti, in linea con il concept enunciato dal gruppo stesso, ovvero il progressivo declino sociale e culturale del genere umano. Le atmosfere si fanno paradossalmente più luminose con l'ottima
September IV, il cui testo narra di un funerale; la composizione, inizialmente elegante e struggente, nel giro di un paio di minuti esplode in un assalto sonoro dalle tinte psichedeliche.
Ricercatezza e sperimentazione proseguono nei brani complementari
England e
Island, carichi di sfumature oniriche ed avvolgenti puntualizzate da tonalità elettroniche di contrasto.
La traccia conclusiva è senza dubbio la più coraggiosa, si tratta infatti di una lunga poesia interpretata da O'Sullivan, sottolineata da evoluzioni ambient, elettroniche e jazz di sottofondo, che irrompono nelle pause tra un verso e l'altro, terminando in una sorta di grandiosa marcia funebre.
Wars of the Roses non dovrebbe tradire le aspettative di chi ha assimilato la svolta stilistica degli
Ulver e conferma che la vena creativa della band non accenna ad esaurirsi.
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