Sono tornati? Sì, sono tornati.
Il sospetto si era già insinuato in tutti noi con il precedente
Voyager, che aveva mostrato decisi segnali di un ritorno verso gli antichi fasti dopo un paio di mezzi passi falsi. Stavolta, però, il balzo in avanti (o forse sarebbe meglio dire indietro verso un glorioso passato) è più ampio e si basa sostanzialmente su un paio di elementi non da sottovalutare: linee vocali decisamente azzeccate e pulite e durate dei brani perfette per esprimere tutto il necessario senza inutili elucubrazioni.
Un lavoro chitarristico mostruoso, riff possenti e ossessivi, elementi melodici e parti oscure e claustrofobiche. Gli elementi che hanno reso celebri i
Manilla Road ci sono davvero tutti in questo nuovo
Playground Of The Damned, che risulta estremamente eterogeneo e cresce sempre più con il passare degli ascolti. Canzoni brutte, sinceramente, non ne ho trovate. Di perle, invece, ce n’è più di una, a partire dalla vivace opener
Jackhammer, fino ad arrivare a
Grindhouse e ad
Abbattoir De La Mort, per non parlare della title-track. Ma i cali di tensione sono assenti per tutta la durata dell’album, che tra arpeggi ad effetto, passaggi strumentali articolati e trascinanti e vocalità uniche è in grado di regalare all’ascoltatore un’oretta di metal di classe cristallina.
Insomma, la sapiente mano dei maestri dell’epic metal si sente alla grande. Un disco da avere per tutti i fan della band. Se invece non li conoscete, andate a guardarvi la discografia e cominciate dall’inizio. Unica pecca, nemmeno a dirlo, i suoni. Io non oso immaginare cosa potrebbero diventare dischi così con una produzione quantomeno decente. E non venitemi a dire che il sound della band ne risulterebbe snaturato, perché aggiungere potenza e definizione a questi pezzi non farebbe altro che aumentarne l’efficacia in maniera esponenziale.
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