Dando un'occhiata al loro sito ufficiale, prima ancora di ascoltare il disco, leggo che i
Death Riders definiscono la loro musica come "Thrash Modern Metal-core riffs meet catchy melodies of Power and Progressive Metal", che per i non anglofoni è traducibile con "Riffoni di moderno thrash e metal-core incontrano melodie tipiche del power e del prog". Poteva non piacermi un disco che riesce saggiamente, almeno nella presentazione, a mischiare i miei generi preferiti? Ma assolutamente no! E infatti
"Through Centuries of Dust" si dimostra un gran disco, che entra di diritto nel novero dei migliori di questa annata 2011.
Chi sono i
Death Riders? I “nostri” magnifici 5 arrivano da Fabriano, nelle Marche, e suonano insieme da ormai quasi 10 anni, anche se questo
“Through Centuries of Dust” è il loro primo lavoro sulla lunga distanza. Thrash metal e Power che si incontrano quindi, richiamandomi alla mente in più di un’occasione i conterranei
Bejelit, sia dal punto di vista musicale sia in particolare nella voce di
Valerio Gaoni, cristallina e sempre puntata verso la parte alta del pentagramma, anche se leggermente deficitaria dal punto di vista della padronanza dell’inglese, in particolare nei frangenti più intimi come nella ballad “
Shelter”.
Ma andiamo con ordine e partiamo dall’ottima copertina, disegnata da Marco Stagnozzi, ad indicare in maniera eccelsa quello che andremo a trovare nel disco, ovvero temi forti e caratteristici del nostro secolo, accompagnati da una musicalità incalzante e a tratti cupa, a sottolineare il decadimento con il quale troppo spesso abbiamo avuto a che fare. Il tutto è rappresentato da una statua che pare parzialmente inabissata, con diverse parti mancanti ma col dito puntato verso un ipotetico futuro, verso una speranza.
Speranza e realtà spesso cozzano tra di loro, si avvicinano senza mai toccarsi, ed è questo il tema della splendida opener,
“The Hedgehog’s Dilemma”, basata sul famoso "Dilemma del porcospino" di Schopenhauer. Fin dal principio riusciamo ad inquadrare la proposta musicale della band, che come già anticipato riesce a far collimare in maniera esemplare due e più stili all’apparenza agli antipodi, mostrando di conseguenza una caratura tecnica e compositiva rarissime per una band all’esordio discografico.
Il disco prosegue quindi con “
Legion”, traccia ispirata ad una frase biblica pronunciata da Satana in persona, “Il mio nome è Legione, perché siamo molti”, frase che apre un brano semplice e dall’ottimo ritornello, che si stampa in testa per non uscirne più, risultando a parere di chi scrive una delle migliori tracce dell’intero album assieme proprio alla già citata opener.
La terza invece è un po’ la traccia-eponimo della band, “
Death Riders”, canzone molto veloce e che mette in evidenza il lato più power della band insieme a “
War Inheritance”, anch’essa caratterizzata da un ritmo incalzante e da un testo molto impegnato, che ci riporta alla mente le esplosioni nucleari di Hiroshima e Nagasaki. E il tema della guerra è ricorrente in “
Through Centuries of Dust”, riproponendosi anche in “
Crimson Liberty” con oggetto specifico le barbarie perpetrate nei campi di concentramento nazisti.
“
Season of Loss” e “
Reason and Fate” risultano i brani più oscuri e allo stesso tempo potenti del lotto, nei quali i
Death Riders trattano drammi molto più personali quali i sentimenti contrastanti di fronte alla scoperta di una malattia e i pensieri di un assassino pronto al proprio atto finale, il suicidio. In “
The Eclipse” invece abbiamo un assaggio della componente più aggressiva della band, appoggiata da un testo ispirato all’anime Berserk, cosa che mi ha strappato più di un sorriso, quasi l’iniziale richiamo ai
Bejelit fosse più di un’impressione. E qualcuno qui ha la passione per i manga, dato che anche il Dilemma del Porcospino dell'opener è presente, tra l’altro, in Neon Genesis Evangelion.
E per non farci mancare niente c’è anche una ballad, a testimonianza che i 5 marchigiani sanno fare veramente tutto e bene, e la già citata “
Shelter” adempie al suo compito in maniera egregia, raccontando la separazione dalla fantomatica Jasmine, con addirittura un intermezzo narrato nella nostra cara lingua italiana, diciamo alla
“Take the Time”, con i dovutissimi paragoni. Bellissimo nella sua semplicità il giro di chitarra ad inizio canzone, segno di come non sia necessario scervellarsi eccessivamente per creare qualcosa di trascinante.
A chiudere il disco, la tranquilla e atmosferica “
When Everything Lies”, quasi un epitaffio posto su un disco che in realtà tomba non è, ma che ci ha meravigliosamente accompagnato attraverso momenti bui, rendendo necessario un meritato riposo, li “dove tutto giace”.
Un album coraggioso quello dei
Death Riders, che può davvero ambire ad unire mondi differenti e apparentemente lontani come quello del Thrash, del Metal-core e del Power, o quantomeno a provarci. Per quanto riguarda il sottoscritto, compito ampiamente svolto con lode. Gli unici difetti riscontrabili, peraltro di lieve entità, sono un’eccessiva lunghezza di alcune canzoni, il suono a volte “pentoloso” (passatemi il neologismo) della batteria e una già citata pronuncia inglese non sempre impeccabile. Difetti facilmente limabili e che non intaccano il valore assoluto di un album da ascoltare, da avere e da promuovere a dovere. Bravi
Death Riders!
Quoth the Raven, Nevermore..