La continua ricerca di nuovi spazi d’espressione dovrebbe essere una delle priorità per le band emergenti dotate di personalità: oggi che tutto sembra già stato “inventato” e “sperimentato”, l’impresa è ancora più ardua ed ecco che la nuova
sfida diventa riuscire ad essere
credibili e
carismatici anche quando le influenze sono molte e abbastanza riconoscibili.
Mescolando con evidente arguzia
rielaborativa l’
art rock dall’estetica sfarzosa e policroma di Yes e Genesis, l’
hard-prog di Styx, Rush, Kansas, Enchant e Prophet, la viscerale esuberanza dei Van Halen e la sensibilità melodica di Boston e Journey, i bolognesi
Flyin' Pasta (monicker leggermente fuorviante, forse …) approdano ad un risultato davvero appagante, in grado di esibire strutture musicali eleganti e variegate ma anche solide e corpose, illustrando al “popolo dei musicofili” la strada corretta per non sacrificare la necessaria energia e la dovuta “accessibilità” sull’altare della soverchia ostentazione tecnica.
In estrema sintesi possiamo dire che i nostri incarnano perfettamente il ruolo di gruppo musicale che sprizza talento, gusto e abilità specialistiche da tutti i pori, fiero ed ambizioso nei suoi propositi artistici che non eludono una vibrante e accattivante tensione emotiva, fondamentale per ogni forma di
comunicazione.
La fusione tra i
barocchismi edificati principalmente sulle suggestive tastiere di Umberto ‘Umbi’ Stagni e la forza penetrativa del rock duro si realizza, così, in un suono carico d’intensità espressiva e di autentica ispirazione compositiva, in cui la voce sicura e densa di
pathos di Francesco ‘Franz’ Grandi si erge come un faro che illumina il percorso migliore per la conquista dell’emozione.
Francamente non saprei scartare nulla di questo “Garage 54”, talmente ben realizzato (compresa la professionale veste grafica e un’impeccabile resa sonora, grazie ad una registrazione effettuata Pri Studio di Bologna cui ha contribuito il noto Roberto Priori), da far dimenticare che si tratta “solamente” di un’autoproduzione, così come non è facile scegliere singoli episodi da consigliare come assoluta priorità d’ascolto.
Non ci resta, dunque, che godere in toto della scaletta così com’è stata concepita, iniziando con la raffinatezza solare di “Through your veins”, passando alle vitali ed affascinanti atmosfere vagamente
adulte di “Hello light” e della vibrante “Things you’ve never had”, vicina alle migliori peculiarità
hard/pomp, per poi sottoporsi con soddisfazione al rock più deciso di “Rocker gets hot”, in grande equilibrio tra impulsi grintosi e melodia.
Notevole, poi, pure la prova romantica affrontata in “Winter’s lake”, una sofisticata ballata priva di manierismi, mentre con “Ride it” si torna su fertili terreni al tempo stesso magniloquenti e “fisici”, e con “As the rock become sand” si sfiora davvero la
perfezione (eccolo, probabilmente, il vero
best in class …) in un brano dotato di un’irresistibile linea armonica dagli orizzonti sconfinati e magici.
Una brillante
title-track strumentale, maggiormente affine al concetto “classico” degli allestimenti
progressive-rock, corona un disco sorprendente, al quale, a voler essere proprio pignoli, manca forse appena un pizzico ulteriore
catchiness, funzionale a destare con maggiore risolutezza gli operatori del settore discografico dal loro atavico torpore.
Risolta la questione dell’ammirazione per il lavoro musicale svolto, non mi rimane che esternare tutta la mia
invidia per la cosiddetta
flyin’ car che i nostri esibiscono nel booklet del Cd (e nella foto che trovate sul loro profilo, in queste stesse pagine) … una
Ford Gran Torino ’76 rossa con le bande laterali bianche … la famosa "pomodoro a strisce" modello
Starsky & Hutch, per intenderci … un
mito ed una band eccellente … eccezionale connubio.