Tenetevi forte, state per ascoltare i 36 minuti e spiccioli più sconvolgenti dei vostri prossimi 36 minuti. Questo "
Pursuit of Honor" degli americani
Battlecross infatti è uno di quegli album che ti prende e ti scuote letteralmente dalle fondamenta al tetto, senza darti un attimo di respiro.
I
Battlecross nascono nel 2003 ma prendono la loro forma attuale solo nel 2007, quando la formazione si stabilizza dopo qualche cambio. Bisogna aspettare però il 2010 per avere loro notizie sulla lunga distanza, con l'uscita autoprodotta di "
Push Pull Destroy". A quel punto la Metal Blade li addocchia e li mette sotto contratto, permettendogli di ripubblicare il precedente disco cambiando però il nome in "
Pursuit of Honor", aggiungendo una outro strumentale ("
Foreshadowing") e cambiando il nome della terza traccia da "
Aiden" a "
Kaleb". Per il resto abbiamo di fronte lo stesso disco pubblicato nel 2010, con alle spalle una produzione decisamente più adatta a far risaltare il suono massiccio e granitico dei
Battlecross.
Thrash metal di vecchia scuola che si scontra con le correnti deathcore odierne, in particolare nel cantato "grattato" e incisivo di
Kyle Gunther, capace di sputare sangue in ognuna delle canzoni presenti sul disco, puntellando così la prestazione dei suoi 4 compagni d'armi, come se ce ne fosse bisogno. La coppia d'asce
Asta/Deranyiagala infatti offre riffoni al fulmicotone e passaggi tecnicamente ineccepibili, in particolare in "
Rapture" e "
Better Off Dead", veri e propri inni al death metal più tecnico. Alla batteria invece troviamo un
Mike Kreger mostruoso, capace di tenere ritmi indiavolati sostenere, assieme al fido
Don Slater, una sezione ritmica davvero coi controfiocchi, che non perde un colpo.
In "
Pursuit of Honor" c'è quindi davvero di tutto, dalle sezioni più tecniche come quelle sopracitate, a vere e proprie stilettate thrash come "
Deception" e "
Leech", a parti più melodiche come in "
Man Of Stone" o in "
Kaleb", sempre se di melodia si può parlare.
Citazione a parte merita la conclusiva "
Misery", grazie alla capacità unica di emozionare nel bel mezzo di un pezzo di rara violenza, ascoltare per credere.
Un disco completo insomma, capace di accarezzare quasi ogni tipo di palato, in particolare quelli più grinzosi. Consigliatissimo ai nostalgici del thrash a cavallo degli anni 80/90, da non sottovalutare nemmeno per i metallari più moderni, affini al deathcore tanto di moda in questo nuovo millennio. Una prima prova sulla distanza notevole insomma, che ci lascia ovviamente ben sperare per il futuro.
Quoth the Raven, Nevermore..