La contaminazione tra rock ed elettronica identifica il presupposto fondamentale di una formula musicale capace di garantire riscontri ampiamente lusinghieri e appaganti, ma congegnare insieme linguaggi apparentemente così distanti come
synth-pop e
metal, magari condendoli con un pizzico di veemenza
industrial e riverberi di cupezze
dark-goth, non è per niente un’impresa facile da realizzare.
Bisogna far convivere forza e malinconia, frivolezze e intensità con grande naturalezza, allo scopo di evitare che tale “matrimonio” finisca per essere la stucchevole rappresentazione di una relazione incompatibile.
Insomma, in questo campo, per far tornare i conti, sono necessarie classe e personalità, requisiti che ritroviamo nel debutto dei
D-Vines, gruppo bresciano artefice di un suono capace di combinare le pulsazioni magnetiche e accattivanti dei suoni cibernetici e l’irruenza delle chitarre, in cui la voce funge da elemento di raccordo tra le due diverse esigenze espressive.
In una sorta percorso emotivo che coinvolge l’epica crepuscolare di “certi” anni
ottanta, la spigliatezza tecnologica degli anni
novanta e le forme più accessibili del rock
alternativo del
terzo millennio, “Kill me Martina” vi condurrà in un universo popolato di apparizioni autorevoli come Depeche Mode, N.I.N., Stabbing Westward, Suburban Tribe, Zeromancer, Paradise Lost (quelli più melodici e
sintetici), HIM e Linkin’ Park, senza dimenticare, però, l’influenza che certo
post-grunge ha sicuramente esercitato sui suoi autori.
Il risultato è assai gradevole, gli influssi sono vividi e tuttavia non ingombranti, la laringe di Stefano ‘Ronca’ Roncadori, pur non “accecando” per versatilità interpretativa, piace per sicurezza e per una colorazione timbrica (la grana scura e affabilmente scabra della sua ugola è certamente un punto di forza della band) che mantengono alta la tensione in una serie di composizioni piuttosto equilibrate, in cui le linee melodiche attraggono e ipnotizzano, i campionamenti e i ritmi avvolgono e trascinano, e dove le poderose trame chitarristiche garantiscono
groove e tempra, facendosi rispettare in una battaglia strumentale combattuta ad armi pari.
I testi parlano di rapporti interpersonali, vissuti nell’amarezza, nella menzogna e nel dubbio, e anche se un po’ “scontati” appaiono funzionali ad un programma che non ha veri cedimenti, sebbene mi trovi
costretto a identificare “Your lies”, “Everyday” ed “Experience” (le più adatte, probabilmente per le odierne
alternative heavy rotation), insieme alla torbida
title-track, alla sognante “Stars” e alla suggestiva enfasi di “My war” (il
guitar-sound qui è pura turgidità
hard-rock), come i momenti più convincenti dell’albo.
Discorso a parte merita, poi, “Juliet”, uno scaltro epilogo in forma di ballata romantica, inquieta e solenne, limitata, negli effetti sensoriali, da un pizzico di manierismo e da un alito di pretenziosità.
Un’opera “prima” ampiamente apprezzabile che lascia ben sperare per produzioni future, in cui i D-Vines, già piuttosto maturi e risoluti, possano confermare e ampliare (magari incrementando ulteriormente la duttilità compositiva e il carisma) le loro rilevanti qualità.