Se siete conoscitori del panorama metal mondiale e non vi fermate alle uscite europee o statunitensi, sicuramente conoscerete i cileni
Criminal, band che, pur essendo sempre rimasta un po’ di nicchia, ha dalla sua una carriera ormai ventennale, e ben sei album alle spalle, a cui si aggiunge questo “Akelarre”, settimo capitolo della loro avventura. D’altronde non stiamo sicuramente parlando di pivellini, visto che il chitarrista Anton Reisenegger presta i suoi servigi anche ai conterranei Pentagram (da non confondersi con la mitica doom band di Bobby Liebling), oltre che dei Lock Up, quindi uno che sa il fatto suo… Con i Sepultura ormai fuori gioco da anni, i Criminal si candidano prepotentemente al trono di thrash metal band più valida del centro/sud America (anche se ormai da dieci anni risiedono in Inghilterra, ma le origini non si rinnegano mai…), e questo “Akelarre” ha tutte le carte in regola per far si che il loro obiettivo possa essere raggiunto. Thrash metal, si è detto, di quello diretto e spietato, non esente, però, da varie influenze esterne, dal death a qualche spruzzata più groove, senza ovviamente dimenticare l’hardcore (sentite la ferale titletrack), il tutto, però, senza risultare un minestrone sciapito, ma, anzi, mescolato con gran sapienza proprio da Reisenegger, oggi leader della band dopo l’abbandono dell’altro decano Rodrigo Contreras. “Akelarre” è un album completo, composto da una band ormai esperta che sa come risultare assassina nei tempi più veloci, e altrettanto micidiale nei rallentamenti che spesso e volentieri spezzano la tensione ed aumentano la varietà di un album che pur non contenendo particolari highlights si lascia ascoltare con molta tranquillità, risultando fresco e spontaneo, complice anche una produzione potente ma che al tempo stesso riesce a non incupire troppo il sound dei nostri, sempre molto tagliente e pungente. Semplicità al posto giusto, quindi, e badate bene, non ho detto banalità. I Criminal sanno che per un disco thrash non è necessario infarcire i brani con riff troppo arzigogolati, preferendo l’immediatezza alla cervelloticità, elemento sicuramente vincente se si guarda al risultato finale. Basta ascoltare la micidiale opener o la già citata titletrack, senza scordare altre bordate come “The ghost we summoned”, “Vows of silence” o “Feel the void” per capire cosa intendo… Se poi a tutto questo aggiungiamo un gran gusto per le parti soliste, direi che tutti gli elementi sono al posto giusto. Ripeto, non stiamo parlando sicuramente di un capolavoro assoluto, ma di un disco sopra la norma sicuramente sì. Un ottimo modo per festeggiare degnamente il proprio ventennale, sperando che, finalmente, i nostri riescano a scrollarsi di dosso lo status di cult band ed entrare nel gotha del metal mondiale, perché se lo meritano sicuramente…
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