Mamma mia che fatica che ho fatto per finire di ascoltare per intero “Generation why?”, album di esordio degli americani
Diamond Plate… E sono un amante del thrash, chiariamo… Ma forse proprio per questo, pensandoci bene, ho avuto difficoltà… Già, perché quello proposto dal quartetto è davvero pesante da mandare giù, fondamentalmente per tre motivi.
Innanzitutto per la voce, sgradevole come un brufolo sulle chiappe, davvero un’impresa stare lì ad ascoltarla…
Monocorde all’inverosimile, finisce per vanificare in toto gli sforzi del chitarrista di rendere più dinamici i brani, appiattendo il tutto e rendendo le canzoni davvero fastidiose.
Poi per la lunghezza dei brani, davvero eccessiva, che fa perdere all’album quell’immediatezza di cui ha bisogno. Per maneggiare materiale lungo senza risultare monotoni ci vuole una bella preparazione compositiva, che, evidentemente, ai Diamond Plate ancora manca.
E terzo perché, diciamolo chiaramente, pur non essendo dei pivellini gli americani non sono certo dei geni, quindi le composizioni non ti fanno sicuramente saltare sulla sedia. E se a dei brani già di per se deboli aggiungiamo i problemi appena elencati, la frittata è fatta.
Tuttavia, questo è il classico album che una casa discografica ama alla follia, tant’è che i nostri sono stati messi sotto contratto niente meno che dalla Earache, un tempo fucina di dischi di ben altro spessore… È il classico album da pompare nei comunicati stampa, il classico album formalmente perfetto perché suonato bene, registrato meglio, e perché ha un sound accattivante, a primo ascolto, perlomeno per le nuove leve, che si fanno abbindolare piuttosto facilmente.
Poi lo inizi ad ascoltare e ti chiedi: dove sono i brani killer? Dov’è la sostanza? Perché devo ascoltare per l’ennesima volta lo stesso riff trito e ritrito? Exodus e Testament, per citare due tra le influenze più marcate del combo americano, hanno suonato questa roba molto prima e molto meglio dei nostri. E non bastano un paio di brani migliori degli altri come “Pull the trigger” o la titletrack a risollevare le sorti di un album che stenta a decollare e quindi a convincere, e si trascina stancamente fino alla fine, come un moribondo nel bel mezzo di un deserto.
A questo punto la domanda sorge spontanea: avevamo davvero bisogno dell’ennesimo album thrash metal insipido e senza personalità, in un momento in cui di dischi di questo genere ne escono veramente a vagonate?
Per quanto mi riguarda la risposta è abbastanza scontata, per il resto fate voi e decidete se volete dare una chance ai Diamond Plate o vi fidate del delirio del vostro umile scribacchino…