Definirei il secondo disco di
Mario Cottarelli una sostanziale conferma.
“Una strana commedia” convalida, infatti, praticamente tutti gli aspetti artistici già emersi nell’esordio “Prodigiosa macchina”: i modelli ispiratori fondamentali del suo autore (Genesis, Gentle Giant, e ancor di più Banco del Mutuo Soccorso, PFM, …) nonché la capacità nel trattare adeguatamente, “rinnovare” e rendere proprio il concetto musicale espresso da questi geni del
progressive attraverso una grande cultura e un notevole gusto compositivo personale, senza traccia alcuna di leziosità, retorica o artefatte forme di allineamento “commerciale” alle nuove tendenze del settore.
Permangono, al contempo, anche una certa attitudine
naif nei testi (interessanti e condivisibili nei contenuti), un approccio vocale particolare (caratterizzato talvolta da un’enfasi, come dire, vagamente
tenorile …) e forse un po’ troppo flemmatico e un senso complessivo di “artigianale”, ma devo dire la verità, questa volta il quadro generale mi sembra maggiormente persuasivo, la sincerità e l’
essenzialità dello schema espositivo, ratificati con convinzione, superano con migliori risultati il test
cardio-uditivo, diventando i connotati di una sorta di
trademark che sa genuinamente di
antico (ed, in effetti, i brani sono stati composti tra il 1974 e il 1981 e poi ri-arrangiati in tempi recenti) in un mondo soffocato da scientifiche rincorse al
vintage.
Continuo a pensare che l’assoluta
autogestione della faccenda possa essere un limite e che la partecipazione di altri musicisti affini alla sensibilità di Cottarelli garantirebbe un contributo significativo nel conferire ai tracciati sonori una superiore compattezza e vitalità, e tuttavia se il controllo
totale della situazione rappresenta la condizione ideale e
inderogabile per esprimere la sua arte, vuol dire che finirò per rassegnarmi a tale soluzione, dal momento che “Una strana commedia”, la leggiadra e sinfonica “L’occhio del ciclone”, la mia preferita “Corto circuito” e la mutevole strumentale “L’orgoglio di Arlecchino” (gradevole il tocco orientaleggiante e l’atmosfera vaporosa e
cinematografica della partitura …) regalano momenti di considerevole suggestione emotiva, affossando con una brillante e fantasiosa maturità espressiva quella flebile interferenza sensoriale che riferisce di un pizzico di scarsa profondità e di poca pienezza, dovute principalmente al largo impiego di strumentazione elettronica e all’uso di ritmiche sintetiche.
Aggiungete un’innata simpatia per un
emergente che, nonostante non sia più esattamente un “ragazzino”, ci “crede ancora”, nella sua musica e nella possibilità di dire qualcosa di bello ed importante anche in un mercato discografico in piena
stagflazione, e otterrete una valutazione ampiamente positiva per un progetto che non dovrebbe passare inosservato ai cultori del
prog italico d’ispirazione
autenticamente settantiana.