“Undone” è il terzo lavoro pubblicato a nome
Zen Rock and Roll e può esser facilmente definito come un esempio piuttosto riuscito d’intrattenimento
evoluto e
raffinato.
Dietro al
monicker si cela in realtà il solo Jonathan Saunders, un polistrumentista di sicuro talento e gusto melodico, capace di colpire la sensibilità dei
rockofili per come riesce a sviluppare in senso
progressivo certe sequenze sonore tipiche del
pop rock, contemplando contemporaneamente anche sfumature di marca squisitamente
hard-pomp e ottenendo, così, un ibrido assai godibile, piuttosto “facile” all’ascolto quantunque assolutamente non banale sotto il profilo creativo.
Niente che possa scatenare inarrestabili moti d’entusiasmo, sia ben chiaro, eppure questi quaranta minuti di musica, in cui è possibile veder evocate simultaneamente le nobili figure artistiche di Ambrosia, Styx, Zon, Starcastle, 10CC., ELO, Genesis e David Bowie (soprattutto per certe sfumature timbriche di Jonathan, per il resto dotato di un registro vocale sommariamente affine a quello di Dennis DeYoung), finiscono per essere assai apprezzati dai sensi, lusingati da questa sagace forma di ricerca nel campo della melodia intensa e (av)vincente applicata su un sostrato armonico mutevole e sinfonico.
Forse sarebbe bastato, allo scopo di rendere il quadro complessivo maggiormente concreto e consistente, evitare quel senso di
dolciastro che a volte contraddistingue le composizioni, ma nonostante la modesta
turbativa pezzi come le vaporose e intense “All in the dark” e “ At the first glance” (dove le suddette rifrazioni canore del
Duca Bianco, o se
preferite, di un Brett Anderson, sono abbastanza distinguibili) o le drammatiche e leggiadre “Undone” e "Antiquated love song" (una vibrante aggregazione tra Styx e Queen), rappresentano situazioni pregne di notevole suggestione emotiva.
Discorso a parte, poi, meritano, e per motivi opposti, “Strange” un’elegante
quisquilia melodica che però sono giorni che mi
perseguita e “Concerto for the original sinners”, un lungo strumentale dal carattere
cinematografico incarnante il momento più ambizioso del disco, mentre a “Lament” è assegnato il compito di struggente epilogo di un albo da non sottovalutare, a dispetto della sua apparente
semplicità.
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