Se andate alla ricerca di un album dai cui solchi digitali escano prepotentemente classe cristallina e una preziosa vitalità melodica, andate pure avanti a leggere questa recensione perché cercherà in qualche maniera di spiegarvi i motivi che individuano in “Prince of paupers” uno dei plausibili punti di arrivo della vostra encomiabile indagine.
Ci siete ancora? Ok, allora cominciamo a dire che tra gli appassionati del genere il nome degli svedesi
Grand Illusion non è per nulla una novità, in virtù di una discografia giunta al sesto sigillo e di una carriera iniziata una
venticinquina di anni fa sotto la denominazione di Promotion.
Diciamo anche che la presenza di ospiti illustri come Steve Lukather (Toto), Jay Graydon (Airplay), Tim Pierce (Rick Springfield), Gregg Bissonette (David Lee Roth) e Paul Buckmaster (Elton John & David Bowie) ha, come di consueto, contribuito sicuramente alla riuscita del lavoro, ma francamente è necessario pure riconoscere che Sundell, Svensson e Rydholm non mi sono mai sembrati così determinati e abili nel mescere propriamente eleganza e forza, sentimento e razionalità in un programma assai eterogeneo capace di trattare
hard,
pomp,
AOR e bagliori di
west-coast sound con disarmante competenza.
La coppia vocale è come sempre straordinaria, tra suggestive intonazioni armonizzate e l’ostentazione di vertiginose estensioni, mentre le canzoni hanno la classica “marcia in più”, rappresentando praticamente tutte momenti d’ascolto imprescindibili nell’ottica di una forma compiuta di appagamento
cardio-uditivo.
Impossibile, infatti, trascurare l’
AOR sinfonico (e vagamente
neoclassico) di “Gates of fire”, sfuggire al tenace morso
hard-oriented di "Eyes of ice", "On and on” e “Under the wire”, alle atmosfere felpate e squisitamente
radiofoniche di “Better believe it”, “St. Theresa's love” (favolosa!) e “Gone” o ancora non essere colti da un benefico languore romantico durante la fruizione di “So faraway” e "Believe in miracles", ballate di levatura superiore.
Identificando, infine, la
title-track, “Through this war” (con un velo di TNT nell’intreccio armonico) e “Winds of change” come autentici
gioiellini in grado di far convivere in modo creativo ed efficace vibranti progressioni melodiche e raffinatezza
barocca (onorando, così, il
monicker del gruppo, mutuato da uno dei grandi capolavori di chi, di questa “roba”, se ne intendeva parecchio!), non mi resta che ribadire il concetto espresso nel prologo della disamina, sperando di essere riuscito a convincervi che il
Principe dei Poveri merita tutta la considerazione che si deve ad un
aristocratico portavoce del settore tutt’altro che
indigente dal punto di vista artistico, a dispetto del suo apparentemente poco prestigioso titolo nobiliare.
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