A tre anni dall’esordio, arriva anche per le
Cherry Lips il momento del loro “white album”.
Un
incipit piuttosto “facile” e “ad effetto” che però, in qualche modo, non è
privo di motivazioni concrete.
I riferimenti con il celebre capolavoro dei The Beatles, infatti, fatte salve le ovvie e
debite proporzioni, non si fermano del tutto all’elegante minimalismo dell’aspetto grafico della questione, ma proseguono anche nei contenuti del disco.
Analoga sembra essere la tensione creativa che contraddistingue “Blow it away” e se nel caso dei
Fab4 si trattava ormai di un problema di “convivenza” (i quattro lo realizzarono, in pratica, da “separati in casa”) soprattutto a causa delle differenti visioni artistiche, per quanto riguarda le giovani
rockers veronesi, la faccenda sembra, logicamente, più legata al tentativo di trovare una “propria strada” che tenga conto di nuove esigenze espressive.
Ecco che, abbandonate un po’ le suggestioni
naif-glamour dell’apprezzato esordio, nel disco licenziato dalla Vrec con il supporto della Davvero Comunicazione, il quartetto veneto oggi non più in configurazione “all female” (con l’ingresso dell’
invidiabile drummer Mattia Benuzzi), ci propone una miscela musicale piuttosto eterogenea, risoluta, meno sbarazzina e “leggera” nei temi affrontati, ma anche piuttosto attenta alle tendenze maggiormente recenti del mercato discografico.
Punk,
sleaze hard rock e ammiccamenti a un certo
pop-rock da “classifica”, in un crogiolo dove coesistono Offspring, Foo Fighters, Runaways, i Backyard Babys più ruffiani e Avril Lavigne, rendono il Cd un prodotto assai piacevole, credibile e “competitivo”, a cui, però, sembra mancare un pizzico di quella “naturale freschezza” che aveva contraddistinto il debutto.
Restano la notevole disinvoltura tecnica e la capacità di “graffiare” (come accade nella vibrante
title-track e nella mordace “U know U can”), di “scurire” occasionalmente i toni (come avviene nell’ottima “Sick and spiteful”), di
rockare con spigliatezza (in “Go home” e in “Spit it out”, alla cui stesura ha contribuito Chris Laney) e anche la voglia di mostrare la
maturità acquisita dalla band (nella volubile e sincopata “Apathy” e poi ancora in “This time” e nell’intensa “My satellite”), tutte situazioni in cui emergono le brillanti doti interpretative di Stefania Parks e la sua affinità chitarristica con Elisa Pisetta, eccellente rappresentante, per sensibilità e perizia, della sopraffina arte del tocco produttivo delle sei corde.
Stima (e valutazione) ampiamente confermate, con un
post scriptum alludente alla vivida sensazione che la ricerca di una superiore “messa a fuoco” complessiva non potrebbe che agevolare questa emergente e promettentissima formazione nostrana.
Del resto, “l’album bianco” dei Beatles arrivò solo dopo un discreto numero di capitoli nella loro “onorata” carriera discografica …
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