Stacco i petali dalla margherita. Lo faccio o non lo faccio? La scrivo questa stroncatura o non la scrivo?
Devo rompere gli indugi e accingermi a mettere un bel quattro in pagella a dei mostri sacri.
E il riferimento ad un gesto d’amore del m’ama-non-m’ama è tutt’altro che casuale: tante volte ho scritto su Sito e Forum, che la mia infatuazione per i
Van Halen ha sempre avuto un che di eccessivo, che trascendeva la semplice ammirazione dei meriti musicali e che assomigliava, piuttosto, ad un innamoramento vero e proprio.
Io, da ragazzo, per i
Van Halen sono letteralmente impazzito: che scena quando mi presentavo sui campetti di calcetto di periferia con la mia maglia n° ”5150” personalizzata a mano. Che fischi ragazzi, quante battute sulla mia sanità mentale. Gli “e-saurì-tooo” (con forte accento barese, mi raccomando) che mi gridavano da bordo campo riecheggiano ancora forte in qualche anfratto dell’anima.
E avevano ragione.
Eddie Van Halen era per me il parametro di misura dell’universo. Una cosa sproporzionata, una follia adolescenziale, che ho faticato a scrollarmi di dosso (ah, maturità, che mai arrivava).
Il disco che con gran sofferenza ho deciso di recensire e bocciare senza appello è
“III”. Il quartetto statunitense lo pubblica nel 1997, come sempre per
Warner Music. Ma al disco, perdonate le solite divagazioni, ci dobbiamo arrivare dopo alcuni passaggi obbligati, da esaminare in modo rapido, ma senza dei quali mi sembrerebbe di mancare la descrizione di fatti importanti, che contribuiscono al pessimo risultato finale di questa release.
Ciò che i fratelli
Van Halen e il nuovo manager riescono a combinare dal 1996 in poi resterà, ai mei occhi, sempre un mistero: un pasticciaccio inverecondo di cambi e controcambi di formazione, pubblicazioni discutibili e rapporti con stampa e fan fatti di tante bugie e poco rispetto.
Dopo l’uscita di
“Balance”,
Sammy Hagar non riesce ulteriormente ad evitare la pubblicazione di un “best of”, alla quale si era già opposto con successo ai tempi del live
“Right Here, Right Now”.
Sammy è convintissimo che non sia ancora tempo di immettere sul mercato una raccolta, più adatta ad un gruppo in crisi di idee, che non abbia altro materiale da registrare. Concordo. Odio i “best of”. Per fortuna in questo
“Volume I” i tre inediti sono davvero clamorosi, bellissimi, degni della migliore produzione dei
Van Halen. In particolare,
“Human Beings”, per me che adoro i Van Hagar, rappresenta un notevole picco qualitativo; l’ho sempre considerato espressione della giusta evoluzione verso cui il gruppo avrebbe dovuto tendere, ossia suono e look più sobri e più maturi, così come avevo sognato per la fase successiva della band.
Ed ecco invece l’inarrestabile girandola di fesserie. La famosa ospitata su MTV per assegnare un premio al cantautore Beck, nella quale i
Van Halen si presentano fra le ovazioni del pubblico in formazione classica. Fuori
Hagar, dentro
Roth. Che per non smentirsi, si mette a gigionare in modo intollerabile sul palco delle premiazioni, convinto (come sempre) che le luci e gli applausi siano tutti per lui.
Dave viene silurato poco dopo (tutti giurano che i patti fossero quelli: un’apparizione per promuovere il best of e poi via). Ma non riunisci i “Classic Van Halen” su un palcoscenico, così, senza avere un piano, altro che…qualcuno davvero non ha gradito.
Dave forse ha bruciato una grande chance. Allora fuori
Roth, dentro
Gary Cherone, proveniente dagli Extreme (che in quel periodo storico condividono lo stesso management con i quattro di Pasadena).
Comincia ufficialmente la “fase 3” della band.
“III” è un disco in cui è presente l’intero campionario delle scelte musicali sbagliate (a partire dalla inguardabile copertina), tutte concentrate in una sola volta:
Edward decide di autoprodurlo, avvalendosi dell’aiuto dell’amico
Mike Post (sì, proprio lui, l’autore delle sigle dei telefilm anni ’80 che hanno trasmesso su Italia Uno per anni).
Eddie mette mano anche al mixer, alle parti di basso (è un preavviso di licenziamento a
Michael Anthony, che suona solo in tre brani, mi sembra), passa molto tempo in studio sulle parti di batteria, usa e prova tormentato cento combinazioni di chitarre e amplificatori diverse, monta corde di nylon sulle chitarre elettriche alla ricerca di non si sa cosa, canta un pezzo come voce solista, che è anche il peggiore della loro storia. Un horror show, signori, una cosa che un fan del mio livello emotivo non riesce a reggere.
Soprattutto, per la prima volta
Eddie Van Halen, domatore delle sei corde, sembra essere dominato della sua chitarra, la maledetta Peavy Wolfgang, che annulla le sue capacità ed il suo tocco: questo pezzaccio di legno incontrollabile con un suono sgraziato, perennemente sul punto di scordarsi pare stregare ed irretire il chitarrista, che perde irrimediabilmente i suoi “superpoteri”.
Arrivare ad ascoltare
“III” fino alla fine è un’impresa, per varie ragioni.
I brani non sono tutti brutti, anzi, spendo volentieri commenti positivi per il singolo
“Without You” (comunque lunghetto), per
“One I Want” e per l’ottima
“Dirty Water Dog”. Carina anche
“Fire in the Hole”, brano inserito nella colonna sonora del film “Arma Letale 4”. Belle canzoni sì, ma comunque lunghe e un po’ stiracchiate. Pur essendo le meglio riuscite dell’album, contengono, a mio avviso, il pericoloso germe della noia, che affiora qua e là. Al secondo minuto questi brani hanno già detto tutto. Ma sempre riparte un ritornello, un giro di chitarra, ancora un coro e tu ti accorgi tristemente che già passeresti alla traccia successiva.
Questo è ciò che succede nei brani migliori. Il resto lo riassumo nelle poche righe seguenti:
“Neworld” è la registrazione di un cazzeggio piano/chitarra acustica.
“From Afar” è un lento sfinimento, brano fintamente sofferto e suadente.
“Once” è un’orrida ballad infarcita di mille inutili sovraincisioni di chitarra e di elettronica nelle percussioni.
“Josephina” sarebbe persino accettabile, se non volesse scimmiottare nella sua parte acustica l’atmosfera da classifica di “More Than Words” degli Extreme (siamo al paradosso, i maestri che imitano gli allievi.
Eddie, ma che fai?) .
“Year to the Day“ è un blues lungo e sciatto.
“Primary” un trascurabilissimo assolo di chitarra. In
“Ballot or the Bullet” Edward vuole a tutti i costi un testo pieno di citazioni e di frasi storiche, ma invece alle nostre orecchie arriva solo un pezzo sbilenco, nel quale musica e parole fanno a cazzotti e il basso scompare sotto una chitarra ribassatissima e trasandata da fare schifo. Poco più di una jam session chitarra/batteria dei due fratelli olandesi, non certo roba da immortalare su disco.
Su tutti questi brani, belli e brutti che siano, il buon
Gary Cherone si distingue per l’incapacità di pensare una melodia credibile. Sembra perennemente sotto sforzo e finisce con l’assomigliare ad un
Sammy Hagar costipato, senza verve, senza energia, quasi imploso e consapevole di cantare su brani strutturati male e altrettanto mal riusciti.
Ciliegina finale, la terribile
“How Many Say I”. Dirige
Eddie Van Halen, canta
Eddie Van Halen (da leggere con enfasi sanremese). Una botta di synth richiama la nostra attenzione, poi parte questo arpeggio di piano finto, sul quale il vocione di
Edward sciorina una serie di banalità, supportato dai backing vocals in falsetto miagolante di
Gary. All’assolo di violoncello la misura è colma. Si spegne e ci si chiede se tutto questo sia davvero accaduto.
In molti hanno detto e scritto che all’epoca i
Van Halen erano di fatto finiti e che
Edward stava in realtà lavorando al proprio esordio da solista. Ma la sostanza non sarebbe cambiata:
“III” è davvero un disco brutto. Punto. Composto, suonato, registrato, mixato e prodotto in modo disordinato, incompleto, ai limiti della qualità demo.
Altra leggenda metropolitana racconta di altri brani già pronti (in rete si può trovare senza difficoltà
“That’s Why I Love You”), che comunque non avrebbero risollevato le sorti di un disco davvero disgraziato. Si narra addirittura di un intero disco bello pronto, ma in realtà la formazione “fase 3” dura ancora lo spazio di un tour e poi basta. I concerti, a dire il vero, portano persino una gradita novità, ossia la presentazione di brani di entrambe le ere dei
Van Halen (
Roth/Hagar), che
Cherone riesce ad interpretare dignitosamente. Da dimenticare, per me, “Somebody Get Me a Doctor” con
Mike voce solista e una
“Josephina”, che in versione live si trasforma definitivamente nell’orrendo siparietto acustico con tanto di accendini accesi.
Incredibile a dirsi, ma la stampa promozionale dell’epoca, riferendosi a questo disco, citava come ispirazione “Close to the Edge” degli Yes. Una trovata pubblicitaria che oserei definire uno scherzo di cattivo gusto.
Dopo
“III” succederà ancora di peggio: la reunion senz’anima con
Hagar, le liti legate a cavilli contrattuali con
Michael Anthony, ormai corpo estraneo alla band e la pubblicazione di un altro best of (ancora!), questa volta con tre inediti inascoltabili. Poi un tour mondiale, in cui
Edward, completamente instupidito da droga e alcool, suonerà in modo osceno, rischiando di cancellare per sempre la sua icona di guitar hero dall’immaginario collettivo. Vederlo adesso, sobrio e in piena forma (esecutiva, ma ahimè non compositiva) è già una buona notizia.
Ma i
Van Halen, quelli che facevano tremare le pareti della mia stanza e che mi facevano passare intere giornate sulla chitarra a provare e riprovare, sono morti e sepolti dopo
“Balance”. Peccato.
A cura di Ennio “Ennio” Colaninno