Ci sono gruppi che sembrano nati per intrattenere, altri che non vedono l’ora di dimostrare quanto sono bravi con i propri strumenti, altri ancora che puntano tutto sull’aggressività o sulla malinconica drammaticità del loro animo compositivo.
Poi ci sono band
sfuggevoli come gli
OSI, davvero complicati da decifrare, nelle loro strutture soniche amniotiche, sature di squarci lisergici, cellule
prog-metal e pulsazioni elettroniche.
In questi casi, come ho già sostenuto in passato, la soluzione migliore è quella di non sforzarsi di
comprendere e affidarsi ad un ascolto completamente libero da punti di riferimento consolidati, fluttuando in questa materia visionaria, nebulosa, densa e vibrante, dedicando il giusto tempo ad una valutazione in cui i sensi devono essere gli unici giudici della contesa.
Ebbene, le parole che seguono sono il frutto di tale personale esperienza e se un’analoga sperimentazione mi aveva fatto entusiasmare per “Blood”, inducendomi a considerarlo l’apice della parabola artistica dell’
Office Of Strategic Influence, oggi non nutro la stessa sensazione di turbamento ed eccitazione per questo nuovo “Fire make thunder”.
Individuare i motivi della mancata esaltazione è, visti i presupposti, qualcosa che prescinde da considerazioni in qualche modo “oggettive” (per quanto possa essere legato a tali
pragmatici aspetti qualunque tentativo di recensione musicale!) e risulta veramente arduo … posso solo dire che stavolta le sensazioni sono rimaste spesso confinate ad un
galleggiamento a livello epidermico, non riuscendo a raggiungere gli strati più profondi dei tessuti emotivi.
Stima e ammirazione per Matheos, Moore e Harrison rimangono immutate, perché il primo
full-length vero e proprio targato Metal Blade conferma ancora una volta la loro idiosincrasia congenita nei confronti dell’
ovvio e perché, comunque, esso rappresenta un modo eccellente per immergersi in una dimensione grondante di mistero, vigore e mesmerica desolazione, ma qualcosa non deve aver funzionato in maniera perfetta se, alla fine, sul taccuino delle “menzioni d’onore”, invece dell’intero programma trovano spazio una manciata di titoli, mentre gli altri si assestano nel campo “dell’aurea mediocrità”.
I momenti maggiormente riusciti, in cui
trasporto e
contemplazione raggiungono le vertiginose vette consone alla prestigiosa vocazione del gruppo, si chiamano “Guards” (illuminata propaggine della gradevole
opener), un incantesimo glaciale, acido e incandescente, gravido di sinistri presagi, "Enemy prayer” un esempio piuttosto convincente di
mystical metal-prog e “Invisible men”, un
gioiellino impregnato di armonie espanse, di
watts metalliferi e d’ispirati fremiti Floyd-
iani, e anche l’indolente inquietudine
esistenziale diffusa da “Indian curse” e il suggestivo svolgimento etereo di “Wind won't howl”, possono essere annoverate tra le situazioni capaci di scatenare sussulti di viscerale partecipazione.
Un piccolo passo indietro per gli OSI, dunque, che restano un “progetto” assai interessante e propositivo, forse “incomprensibile” (e non solo per chi intende il
prog esclusivamente come virtuosistica e intellettualistica ostentazione tecnica …) eppure sicuramente affascinante, proprio come tutte le creature
seducenti,
ritrose ed
enigmatiche.