“Per campar sano bisogna pisciar spesso come il cano”
E finalmente, dopo anni (tre) di attesa, la nuova creatura di
Michael Kiske prende forma discoidale e raggiunge in tutto il suo splendore le mie orecchie di avido idolatra del vocalist di Amburgo. Fremo, faccio partire la prima traccia e aspetto che una meravigliosa tempesta sonora mi pervada. In un mondo ideale sarebbe tutto giusto, tutto bello, tutto corretto, se non fosse che di splendido e meraviglioso “
Unisonic” non ha proprio nulla.
Ve lo dico subito, senza troppi giri di parole, così in caso non foste d’accordo potete andare a leggere altrove qualche altra entusiastica e incensante recensione, scritta da un qualcuno abbagliato dai nomi e incurante della sostanza: “
Unisonic” per me è stata una delusione, un buco nell’acqua, un fallimento. Chiaro il concetto? Siete ancora qui? Allora qua la manina, venite con me e proverò a spiegarvi perché e dove il mio idolo, o chi per lui, ha toppato clamorosamente.
Prima di tutto, è giusto chiarire che questo disco del power degli Helloween e dei Gamma Ray non ha nulla, neanche mezza nota. E’ hard rock, a tratti neanche troppo hard per la verità, con una spruzzatina ogni tanto di classic, punto. Se vi aspettavate un ritorno alle origini per la coppia di figliuoli prodighi
Hansen-Kiske vi sbagliate di grosso, ma questo era pressoché chiaro fin dai primi vagiti della band, quando ancora il buon Kai non faceva parte del progetto.
Il che non dev’essere per forza un male, anzi. Kiske, Ward e Zafiriou con i
Place Vendome hanno infatti prodotto due album di hard rock semplicemente eccellenti, in particolare il più recente “
Streets of Fire”. Ovvio quindi pensare e sperare che l’aggiunta dell'ex Krokus e Gotthard
Mandy Meyer e soprattutto di Kai Hansen potessero elevare ancora di più il livello qualitativo di una proposta musicale già collaudata, portandola al limite del capolavoro. Un limite è stato si raggiunto, peccato si tratti di quello della mediocrità.
E “
Unisonic” è pervaso da questa mediocrità, da cima a fondo, con un (UNO) picco di eccellenza, qualcosina di buono e tanto, tanto di facilmente dimenticabile. Ma non tanto perché i suoni siano pessimi o le prestazioni del gruppo siano deficitarie in questo o quello, quanto perché il disco nella sua globalità sembra tanto l’esordio di 5 inesperti musicisti e non quello di gente che da 20 anni calca i palchi di tutto il mondo. E nemmeno la scusante del “non abbiamo mai suonato assieme” regge, perché le storie intrecciate in questi
Unisonic le conosciamo tutti, altrimenti staremmo leggendo una recensione di Justin Bieber su alfemminile.com.
E dire che l’inizio, con l’omonima “
Unisonic” è incoraggiante: chiaro, non è roba da gridare al miracolo, ma è quantomeno un’onesta canzone di hard rock, frizzante e vivace, impreziosita da un Michael Kiske che dimostra ancora una volta di essere il miglior cantante power sulla piazza, e “piazza” non è assolutamente un’allusione alla sua calvizie, giuro. Ma dato che ormai la cazzata l’ho detta, cavalco l’onda e dico che il buon Michael sembra aver fatto la fine di Sansone, perdendo assieme ai capelli una buona parte di quel mordente e di quella grinta che caratterizzava le sue prestazioni. Prendo in prestito un’espressione dell’ex collega Francesco Bucci, non me ne voglia, che del Kiske di “Unisonic” dice “
E’ grandioso ma sembra cantare seduto in poltrona”. E la sensazione è davvero questa, quella di una voce divina ma che si limita a fare il suo. E, in questo caso, il suo non è sempre sufficiente.
Basta infatti un ascolto della seconda traccia, “
Souls Alive”, per rendersi conto che non basta la voce di Kiske per elevare oltre la stiracchiata sufficienza una canzone davvero moscia e impersonale, che fa il paio con le varie “
I’ve Tried”, “
Star Rider” e “
My Sanctuary”: tutte uguali, tutte con lo stesso schema strofa-ritornello-strofa-ritornello-assolo-ritornello-ritornello (schema che peraltro caratterizza ogni canzone del disco), tutte senza un’identità, scontate e terribilmente prevedibili, portate al 6 politico solo dall’interpretazione del signore dietro al microfono. Il fatto è che ci sono casi in cui Kiske non basta e ascoltare ad esempio “
Renegade” diventa una faticaccia: una delle canzoni più banali e noiose della storia recente, dove tutto, comprese le linee vocali, viene stuprato da un impensabile pressappochismo.
E la cosa più triste in tutto ciò è che
Meyer,
Ward e
Zafiriou sembrano appena usciti dalle prime lezioni di conservatorio, fornendo una prestazione al limite dell’irritante per semplicità e pochezza.
Per fortuna “Unisonic” ha anche qualcosa di buono, e questo qualcosa di buono coincide, manco a farlo apposta, con le canzoni scritte totalmente, o in collaborazione con Ward, da Kai Hansen. E qui si apre il suo capitolo: Hansen a livello meramente esecutivo è tanto perfetto quanto scolastico, l'ideale compagno di chaise longue di Kiske. Gli assoli che saltan fuori dopo il secondo ritornello di ogni canzone sono per un buon 70% prevedibili e banalotti, seppur suonati con la dovuta perizia. L’unico apporto veramente importante di Kai è quindi quello in fase compositiva. Le canzoni da lui scritte sono senza dubbio le migliori del disco, pur senza far gridare al miracolo, a partire dall’oscuro lentone “
King for a Day” (peraltro da lui parzialmente interpretato) passando per la ritmata “
We Rise” e arrivando alla già citata “Unisonic”.
Unica, vera perla del disco è però la terza traccia, “
Never Too Late”. Ed è qui che si rivedono e risentono i VERI Kai Hansen e Michael Kiske, sia in fase compositiva che esecutiva, realizzando una canzone dai toni “happy”, a tratti quasi punk-rockeggiante (e non è una bestemmia, dategli un ascolto), che ritmicamente mi ha ricordato a tratti “
Future World” e che incarna quel che sarebbe dovuto essere, a mio modo di vedere, il vero spirito di questo progetto Unisonic, quello dell’unione di nuovo e vecchio, tra eredità e futuro, un “happy hard rock” se mi passate il neologismo.
Molto bella, per onor di cronaca, è anche la malinconica ballad conclusiva “
No One Ever Sees Me”, che il saggio sarto Michael Kiske si cuce addosso come un vestito perfetto, scrivendo musica e testi appositamente per la propria voce.
Il fatto è che il baluardo di una canzone eccellente su 11 e un paio di buoni scudieri non sono assolutamente sufficienti per giustificare 3 anni di attesa e il materiale umano a disposizione degli
Unisonic. La citazione iniziale da Amarcord ha una duplice valenza: evidenziare che l’operazione amarcord, con la tanto sognata reunion tra Kiske e Hansen, ha funzionato solo a metà, riducendosi a un mero esercizio di stile e soprattutto commerciale. Va bene che come il cano bisogna pisciar spesso per viver sano, ma farla fuori dal vaso non è mai cosa buona e giusta. E ora su, pulire e riprovarci, siete grandi abbastanza e centrare il buco non dovrebbe essere poi così difficile.
Quoth the Raven, Nevermore..