Ammetto di non essere il più adatto a recensire una band come gli
Attic, in quanto non ho mai amato particolarmente le sonorità post hardcore (in realtà nessuna sonorità ‘post’… post rock, post hardcore, post metal, etc…). Non ho mai amato quel contrasto tra le vocals incazzate e il resto della musica pieno di riferimenti melodici, e soprattutto l’accostamento di questo tipo di band a generi (che siano rock, metal o hardcore) lontani anni luce a livello di attitudine e di approccio musicale. Chiusa questa parentesi introduttiva, è altrettanto vero che non per questo motivo mi sono avvicinato all’esordio della band di Mantova con superficialità, e ho quindi ascoltato il CD con attenzione. La prima cosa da sottolineare è la forte influenza mathcore del quartetto, il che rende la proposta decisamente più interessante, grazie a brani nervosi, mai domi, pieni di cambi di ritmo e di sonorità, che tengono l’ascoltatore sempre sul filo della tensione. Questo è senz’altro un pregio per la band lombarda, che ha dalla sua oltre che un’ottima preparazione tecnica, anche una produzione professionale, elemento imprescindibile in questo tipo di lavori, che altrimenti risulterebbero estremamente confusionari e impastati. Il senso di claustrofobia che ci assale fin dalla prima traccia non ci abbandona fino alla fine del CD. Il gruppo riesce a tenerci in pugno grazie ad un ottimo lavoro di chitarra, coinvolgente ed avvolgente, oltre che ossessivo e dissonante, e soprattutto grazie alle peripezie della sezione ritmica, davvero mai statica, sempre pronta a partire verso nuove soluzioni. Anche Andrea Balestrieri ci mette del suo, urlando a squarciagola tutto il proprio disappunto e la propria disperazione, andando così a completare un quadro sonoro schizoide e malato. Nulla da dire sulla coerenza stilistica del gruppo, che riesce a mantenere lo stesso trade mark per tutta la durata del disco, anche se con innesti noise, che rendono il tutto più interessante. Quello che non va è un’ancora eccessiva derivatezza del sound, che paga, purtroppo, dazio a formazioni che hanno già ampiamente scritto le coordinate del genere, quali Eyehategod, Converge, e via dicendo… In ogni caso c’è qualche brano che spicca rispetto agli altri, e tra questi segnalerei “These Days Will Never End”, la opener “Eyes To See Mouth To Speak” o “The Cage”. In definitiva si tratta di un buon esordio che mette ben in evidenza le capacità della band, pur con le riserve a cui abbiamo appena accennato. L’augurio, quindi, è che per il futuro i nostri riescano definitivamente a scrollarsi di dosso le sacrosante influenze con cui sono cresciuti, e riescano a dare alle stampe un prodotto finalmente maturo e personale, visto che le capacità ci sono. Io sono sicuro che possono farcela, e oltretutto vi consiglio, nel caso vi capitino a tiro, di andarveli a gustare dal vivo, perché sono certo che la dimensione live sia quella che realmente gli appartiene.
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