Tra Vittorio Veneto e l’Irlanda, parafrasando il titolo del noto
live-album di Francesco Guccini, così si potrebbe introdurre il lavoro di
Antonino Di Cara, cantautore veneto innamorato del
folk e delle atmosfere celtiche.
Sono queste, infatti, le suggestioni ispirative che animano le sue “poesie in musica”, popolate di personaggi in qualche modo “classici” eppure tratteggiati in maniera espressiva, eloquente e fascinosa, attraverso la dote rara di una fattiva semplicità, capace di non scadere nelle banalità o, peggio ancora, nello sterile ermetismo, un vano stratagemma, quest’ultimo,
ahimè piuttosto comune per tentare di apparire creativi e ispirati.
In realtà, nonostante il prologo, non è il celebre maestro modenese il primo a venire in mente durante l’ascolto di “Novelle dell'altrove”, ma altri fieri ambasciatori della nostra grande tradizione nella canzone d’autore del calibro di De Gregori, Branduardi, Bertoli e De Andrè, evocati contemporaneamente a Modena City Ramblers e Gang in composizioni costantemente equilibrate, pregne di arrangiamenti prettamente acustici, essenziali e assai raffinati, sviluppate con gusto “estetico” e importanti dotazioni emotive, in grado, pertanto, di fare sempre breccia nell’animo dell’astante, che si tratti di rasserenarlo, allietarlo, illanguidirne i sensi o magari farlo pensare (lo so, è una cosa a cui non si è più tanto abituati …) almeno un po’ a quello che sta ascoltando.
“L'amante della luna” suona spigliata, vaporosa e magica, “Il viaggiatore” è una ballata dalle destinazioni sorprendenti e (inde)finite, “Il capitano dei marinai” è una
epica (con tanto di citazione iniziale da “Master & Commander”) e “reale” celebrazione della “vita di mare”, mentre “Il soldato” e la delicata e smaniosa “Il frate”, narrano le vicende di figure apparentemente tanto diverse tramite il medesimo garbo e un’analoga saggezza lirica.
“L'uomo di poche parole” rievoca le nostre feste di paese con tanto di “ballo a palchetto”, condite, però, da un tocco di eleganza alla
franscese, “L'angelo ubriaco” ci trasporta verso orizzonti lontani con la sua atmosfera
simil-country e un testo che parla di libertà, amarezza ed eternità e “Lo sposo di Marianna” è una sorta di filastrocca piena di malinconia e di romantica disillusione, ancora una volta schietta e agevolmente intelligibile, nella quale riconoscersi è, sebbene ovviamente non
auspicabile, piuttosto facile.
Il nostro si rivela, così, un artista dotato di notevole sensibilità e la sua produzione piacerà proprio a chi ricerca, anche solo per concedersi una pausa pacata e “pensante” dopo tanta vibrante elettricità, la bellezza di un racconto ricco di emozione, catturata in tutta la sua naturale purezza, lontana dal clamore e priva d’intenti destabilizzanti.
Un’altra attestazione dell’acuta vocazione emotiva del Di Cara? La scelta di aprire e chiudere questo disco con un campionamento della favola del soldato e della principessa tratto da “Nuovo Cinema Paradiso” di Giuseppe Tornatore, una splendida metafora che si presta a parecchie riflessioni sul tema del rimpianto e dell’illusione … e bravo Antonino.
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