Della mia grande ammirazione per la laringe di Danny Vaughn ho già riferito su queste stesse colonne in più di un’occasione, ma il ritorno dei “suoi”
Tyketto (gruppo per i quali ha “prestato servizio” con profitto anche un altro eccelso
vocalist come Steve Augeri … forse è bene ricordarlo …) mi consente di segnalare questa band americana tra le tante formazioni straordinarie che avrebbero meritato molto di più se solo non fossero arrivate alla maturazione artistica in un momento storico in cui il “vento” degli interessi discografici e delle “mode” aveva cominciato a soffiare verso altre direzioni.
“Don't come easy”, il loro debutto del 1991, rimane uno di quei gioiellini dell’
hard melodico da conservare gelosamente e da (ri)ascoltare spesso se l’idea di una musica realizzata con i Journey nel cuore e i Dokken nei muscoli sollecita in modo imperioso i vostri sensi di
rockofili e se volete continuare ad indignarvi con la Geffen che non ebbe fiducia nelle sue qualità e potenzialità (vi do un indizio per rintracciare una plausibile decifrazione del “misfatto” … Nirvana …).
Anche i lavori successivi (in particolare il secondo “Strength in numbers”, con il buon Vaughn ancora saldamente al timone della ormai considerata “anacronistica” corazzata statunitense) si dimostreranno opere di pregio, ma è inevitabile auspicare, giunti al momento di ascolto del nuovo “Dig in deep”, il recupero di quelle sensazioni così prepotenti regalate dall’esordio.
Ebbene, nonostante le speranze evocate dal suo titolo, non mi sento di affermare che l’album sia riuscito a “scavare nel profondo” della mia anima tanto da indurmi ad un’equiparazione così entusiasmante (fermo restando che “razionalmente” certi paragoni andrebbero accuratamente evitati …), ma allo stesso tempo considero questo primo lavoro dei nostri per la Frontiers una delle priorità melodiche dell’anno, capace di esternare una passionalità e una forza espressiva tali da farlo inserire di “diritto” tra le numerose
rentrée di notevole valore artistico a cui ci ha fortunatamente abituato il
rock-rama contemporaneo.
La prova sfavillante di Danny, non è, ovviamente, un aspetto da trascurare in questa gratificante valutazione e tuttavia, com’è giusto che sia, da sola non sarebbe sicuramente stata sufficiente a fornire l’impressione nitida di un gruppo (ancora) davvero affiatato ed equilibrato, voglioso di dimostrare il proprio talento e con tante “cose” da dire, anche nella congestione discografica del terzo millennio.
In questo senso, “Faithless” è uno dei pezzi più appassionanti ascoltati negli ultimi tempi, veramente degno di quei Tyketto scolpiti indelebilmente nella mia pur
costipata memoria: il
riff cromato e possente che si stempera in un clima sospeso di grande suggestione, un attimo prima che il crescendo Perry-
esque s’impossessi del
refrain … tutto favoloso.
Altri momenti da incorniciare sono “The fight left in me”, dove convivono energia, fantasia e sentimento, “Monday” che sembra alimentata dai precetti di certi “Cattivi Inglesi”, la
title-track e “Sound off”, “schietti”, divertenti e propulsivi, tra
hard-blues e scorie
soul-funky e “Let this one slide”, esplicito e raffinato tributo all’arte “spaziante” degli
AOR Gods Journey.
La spigliatezza
bluesy e il tocco vagamente Zeppelin-
iano di “Love to love”, l’ariosa atmosfera di “Here’s hoping it hurts”, quella
rootsy e malinconica di “Battle lines” e la solarità di "Evaporate” poi, rappresentano un’eloquente ostentazione di classe e passionalità, mentre tocca a "This is how we say goodbye” sollecitare le velleità romantiche degli appassionati del settore, sicuramente toccati da questa
bucolica ballata orchestrale dal considerevole fascino.
“Dig in Deep” non possiede, dunque, proprio tutti i crismi del “capolavoro”
tout-court e tuttavia ci riconsegna una formazione “integra”, vitale e valorosa, che, scontata un pizzico di “ruggine” comunicativa, magari dovuta agli anni “d’inattività” collegiale, può puntare tranquillamente all’eccellenza assoluta … del resto, come bene sanno i Tyketto, certe cose “
non vengono facilmente” …