“Danger zone” … nuovo disco per gli
Hardline … si preannuncia un’altra serie di sedute d’ascolto
ansiogene per il sottoscritto, talmente “innamorato”, ancora oggi, a distanza di vent’anni, di “Double eclipse”, da rendere davvero arduo affrontare con la necessaria
libertà (senti)mentale il quarto capitolo della creatura in cui l’unico legame attuale con quell’irretente passato è rappresentato dalle capaci dotazioni artistiche di Johnny Gioeli.
Una situazione a livello emotivo veramente “pericolosa”, dunque, che in realtà si era già in qualche modo verificata nel momento del secondo (“Hardline II”, anno 2002) e del terzo (“Leaving the end open” del 2009, e qui, probabilmente l’apprensione era stata addirittura maggiore, vista la diffusa smania di
reunion del periodo … non ancora esaurita, peraltro …) “incontro”, risolti entrambi in maniera piuttosto soddisfacente, nonostante quella “magia”, cui avevano contribuito fattivamente due
monumenti come Neal Schon e Deen Castronovo, non potesse, quasi
fatalmente, trovare un’integerrima replica.
Nello specifico, poi, le sensazioni contrastanti aumentano ulteriormente: fuori Josh Ramos, che aveva dimostrato (anche in Le Mans, The Storm, China Blue, Ramos-Hugo,Two Fires …) di poter essere un eccellente “surrogato” di Mr. Schon e dentro Alessandro Del Vecchio, un’autentica “gloria nazionale” divenuta internazionale per meriti oggettivi e “manifesta superiorità”.
Thorsten Koehne è certamente un buon chitarrista, ma il suo
curriculum, pur autorevole (Demon Drive, Code of Perfection, Eden's Curse, …), non offriva preventivamente
assolute garanzie vocazionali, attestate, però, alla prova dei fatti grazie ad una prestazione di spessore, in cui sono saltuarie le lusinghe
tecnicistiche e prevale il concetto di
musicalità sensibile richiesto dalle circostanze espressive.
Evidentemente Gioeli e Del Vecchio hanno fatto la “differenza”, stabilendo una
parnership “elettiva” capace di influenzare pure il resto della “truppa”, da valutare come artefice di una
performance accurata e appassionata, sebbene incapace di offuscare in alcun modo la stentorea figura del
vocalist italoamericano, in ultima analisi, mai come oggi palese protagonista della situazione.
Passando al “sodo”, “Danger zone”, piazza subito un terzetto da cardiotonico melodico: “Fever dreams”, “10.000 Reasons” e la stessa grintosa
title-track del disco, sollecitano i sensi degli appassionati con quel misto di “seta & acciaio” impossibile da fronteggiare, se non abbandonandosi completamente alle armonie in crescendo, ai
refrain memorabili e alle atmosfere “spazianti” che lo impreziosiscono … tutta “roba” classica,
eh, eppure caspita quanto conquista istantaneamente.
“What I'd like”, non è male, e tuttavia sconta un piccolo eccesso di
dejà-entendu (in cui lo spettro fuggevole di Malmsteen e della sua “Heaven tonight”, è solo la particolarità più “facile” da individuare), e sulla medesima linea di “galleggiamento” dell’apprezzamento si attesta pure la romanticheria di “Stronger than me”, mentre con la Bad English
oriented “Never too late for love” (che qualcuno ricorderà nella versione di Philip Bardowell, se non addirittura in una rara interpretazione di Mark Free …) , con “Stay”, deliziosa leccornia
adulta con un pizzico di
early Bon Jovi nell’impasto e con il
seventies hard-rock “I don't want to breakaway”, si torna a frequentare l’eccellenza di settore, rispondendo con competenza e dinamismo alle esigenze dei tanti “clienti” tuttora affezionati a questi lidi sonori.
Ancora una leggera flessione con la leziosa “Look at you now”, per prepararsi adeguatamente al
rush finale: “Please have faith in me” (una richiesta da accogliere senza esitazioni …), “Show me your love” (degna dei Rainbow “americani”, o dei migliori Sunstorm, se preferite …) e la “bomba” conclusiva “The only one” (
bridge e ritornello da applausi …), convinceranno anche i più
titubanti (tra cui il sottoscritto, come avrete capito …) che la “forza (melodica) scorre ancora potente” in questi strenui
difensori della buona musica e che nessun fondato “lato oscuro” dirige le loro movenze artistiche, fossero anche solo quelle tentazioni “moderniste” che talvolta snaturano il
trademark dei veterani e (praticamente) sempre infastidiscono i “puristi” del settore.
In conclusione, sebbene penso sia vero che il “primo amore non si scorda mai”, in questo caso, a differenza di quanto succede normalmente “nella vita reale”, anche dopo quattro lustri, non c’è l’ombra di una forma delusiva nel ritrovarsi … i “giovani” aspiranti al titolo di categoria faranno bene a non sottovalutare i loro ancora agguerriti antesignani … per la grande soddisfazione, lo ripeto nuovamente, di chi adora il genere, che non dovrebbe
proprio farsi sfuggire quest’avvincente gioiellino.