Terza uscita ufficiale per George D. Stanciulescu ideatore del progetto solista Ad Ombra con
Almost Eternity – Handmade Belief for the Nostalgic Lambs, composizione orchestrale dalla forte identità neoclassica e maculata da riferimenti poetici e letterari più o meno identificabili (alcuni delle voci inserite sono in lingua italiana).
Siamo di fronte a un album darkwave in bianco e nero, reso etereo dalle voci drammatiche, doloranti e spettrali di
Alexandra Damian (mezzo-soprano),
Ilinca Olteanu e
Maria Paduraru (entrambe soprano) che aggiungono grazia e una certa sacralità allo sfondo polifonico di una realizzazione che, a livello musicale, si potrebbe porre sullo stesso piano delle avanguardie artistiche e letterarie del Novecento.
Un incipit appena percettibile che si trasforma presto in un turbine di suoni, lascia spazio al motivetto classico di un pianoforte il quale ci accompagna tra gli abissi musicali di
“Seabound”, pezzo dove è facile riconoscere il lamento attraente di una sirena ripreso anche in
“Salon Hybris”. A seguire
“The Hour of the Wound” dall’aria di un vecchio 45 giri risalente al dopo guerra e di origine incerta, trovato per caso in una polverosa soffitta, reso contemporaneo dall’elettronica aggiuntiva.
Come detto in precedenza le citazioni e riferimenti si sprecano; sul finire della silente
“The Book of Mire” sentiremo:
Tu sei il paese ove le donne di Putivl’
non piangono prima del tempo come i cuculi,
e con tutta la verità io le rendo felici,
e ad essa non occorre distoglierne lo sguardo.
quartina estratta da
Le Onde, componimento in versi ad opera di
Boris Pasternak, noto premio nobel e scrittore de
Il dottor Živago; altro riferimento nostalgico sulle vicende storiche che hanno caratterizzato e segnato il volto dell’est europeo, ben celato dalla musicalità e dalla brevità della citazione.
Triste e sconcertante
“Missel de la Morte”, con la quale vengono messi in musica i versi dell’omonima poesia di
Émile Nelligan; mentre in
“Decorpus XI” tra il rumore di catene sentiamo l’avvertimento di un prigioniero internato per le sue brame di conoscenza.
Suona alla porte il destino o al massimo vi fa una telefonata come accade in
“Flowers for Eschaton” (sono passati i tempi al massimo “bussava” come nella quinta di Beethoven!): una suoneria, un campanello, una voce di donna e uno scenario apocalittico seguito da un’insolita calma espressa dalla solennità del canto destinata a sopperire tra i suoni stridenti in primo piano.
Come avete capito, un declinare si suoni che si dispiega costruendo gradualmente la sua fisionomia per dare forma a un album impegnato, imponente, se volete pesante, realizzato con cura certosina e con una ambizione narrativa concretizzata nel risultato finale- e non solo per i passi antologici montati sulla musica.
Opera bifronte tra passato e presente, tra rabbia e abbandono, che mostra insieme i suoi volti tra le sue frenesie di infinito.
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