"I have a right to be heard, to be seen, to be loved, to be free, to have everything I need, to be me, to be safe, to believe in something"
E a costo di farsi sputare in faccia dai fans più conservatori, i
Sonata Arctica in questi anni si sono decisamente arrogati tutti questi diritti, e forse anche qualcuno in più, prendendosi la libertà di cambiare, variare, virare e stupire, nel bene e nel male.
Si perchè tutto si può dire dei finlandesi tranne che la loro proposta musicale sia stantia e ripetitiva. Anzi, piuttosto questo tourbillon continuo è stato ed è spesso frutto di critiche, in particolare da chi vorrebbe i 5 di Kemi dediti solo ed esclusivamente a quel power metal di stampo Stratovarius che li caratterizzava nei primi anni di vita, in particolare con "Ecliptica" e in misura già leggermente minore con "Silence".
Kakko e soci invece non ci stanno, non ci sono mai stati e hanno sempre cercato, per quanto possibile, di stupire tutti e spiazzare tanti, cambiando maschera ad ogni nuovo disco, mantenendo un'ossatura stabile ma arricchendo le loro composizioni di elementi sempre nuovi, insaporendo le ricette della tradizione con ingredienti succulenti, anche se dal sapore forte.
Avete presente quando ad ogni nuovo album una band dice
"Il nuovo disco sarà diverso dai precedenti"? Ecco, i
Sonata Arctica hanno il vizio di farlo davvero. E stavolta gli ingredienti dal sapore forte di cui sopra sono davvero variegati, tanto variegati da comprendere anche..un banjo! Ma di questo ne parleremo dopo, nella seconda parte della nostra recensione.
Si perchè "
Stones Grow Her Name" fondamentalmente si divide in due grossi tronconi, che hanno come perno la centrale "
Alone in Heaven", mid tempo in cui lo spirito dei Queen, che spesso ha fatto capolino nelle composizioni dei finlandesi (basti pensare alla parte finale di "Destruction Preventer"), si fa sentire in maniera abbastanza pressante soprattutto nelle linee vocali del sempre ottimo (almeno su disco)
Tony Kakko, che a livello di songwriting si dimostra al solito puntuale e, vedremo poi, geniale.
Le prima cinque canzoni del disco rispecchiano ciò che i Sonata Arctica sono stati, in un mix saggiamente composto e religiosamente interpretato di album quali "Reckoning Night" e "Unia", senza dimenticare il tanto osannato power metal delle origini, che non perde occasione di farsi sentire, senza dubbio più di quanto fatto su "The Days of Grays". In particolare il primo singolo "
I Have a Right" e l'opener "
Only the Broken Hearts" sono tanto intrise di semplicità e radio-friendliness quanto di bellezza, quasi volessero accogliere l'ascoltatore e metterlo a suo agio, per prepararlo all'ottovolante che andrà poi obbligatoriamente cavalcato nella seconda parte del disco. E come sempre il primo singolo che i finlandesi scelgono per promozionare un nuovo album segue un iter ben preciso nella mia testa: merda-noncosìtantomerda-discreto-caruccio-canticchiabile-bello-nonpossofareamenodicantarla. Così era successo per "Flag in the Ground", così succede per "I Have a Right".
Si arriva così alla già citata "Alone in Heaven". Da qui, il delirio. In senso buono, s'intende (almeno per il sottoscritto).
A partire da "
The Day" infatti i Sonata Arctica che tutti conosciamo si prendono una vacanza e ci permettono così di fare la conoscenza con qualcuno (o qualcosa) di nuovo, una reincarnazione tanto fresca quanto ipnotica. L'ottovolante di cui sopra corre tra generi diversi e rende pressoché impossibile una precisa categorizzazione, compiendo virate improvvise, giri della morte e accelerazioni impreviste.
Partiamo dal fondo, ovvero da
"Wildfire, Part II" e "
Wildfire, Part III", che completano e concludono (?) la saga iniziata 8 anni fa su "Reckoning Night" della cittadina infuocata di Wildfire. Le due canzoni hanno un taglio decisamente epico e cinematografico, coadiuvate da elementi orchestrali che rendono le sonorità pompose e maestose, pur nell'apparente semplicità di strumenti quali violini e chitarre acustiche. La sensazione di essere parte della città distrutta è tangibile in più di un'occasione, permettendoci di vivere la canzone nel senso più letterale del termine, come ad esempio i Blind Guardian ci hanno spesso e volentieri abituati.
La canzone che le precede, "
Don't Be Mean", è la classica ballad del disco, anche se parlare di classico in questo caso è quantomeno inappropriato, svolgendosi su toni quasi imploranti, con un Kakko autore di una prestazione coinvolta e coinvolgente. Sono brani come questi che mi fanno crescere la viva speranza che anche in sede live il buon Tony si sia ripreso dalla spirale negativa che l'ha accompagnato sull'ultimo "Live in Finland" e sia tornato nella forma di un tempo.
Ho lasciato volutamente per ultima "
Cinderblox", senza dubbio la gemma del disco e in senso assoluto una delle canzoni più belle della discografia dei
Sonata Arctica, sicuramente la più folle. Avete presente il banjo di cui parlavo all'inizio? Ecco, sicuramente avrete pensato che avrebbe avuto una piccola parentesi in qualche canzone..beh, vi sbagliavate di grosso. Qui il banjo, nelle mani di Peter Engberg, è infatti l'assoluto protagonista, alternandosi e accompagnandosi alla chitarra dell'ottimo
Elias Viljanen (il ragazzo sta maturando e acquisendo personalità, e si sente) in un qualcosa che trascende ogni possibile definizione, spingendo ancor di più i finlandesi verso una meritata unicità nel mondo musicale.
E parlando dei miglioramenti di Viljanen non posso non citare il resto della truppa: di Kakko ho già parlato,
Portimo è il solito precisissimo metronomo, sempre ben supportato da
Paasikoski, che per inciso si sente pochino, mentre
Klingenberg riesce a risultare meno fastidioso del recente passato, facendo rimpiangere un pochino meno Mikko Harkin.
Se siete degli hardcore fans dei primi Sonata Arctica, passate oltre perchè questo nuovo disco potrebbe finire addirittura con lo schifarvi. Ma se solo siete un po' aperti mentalmente, se avete gradito la svolta al limite del prog di "Unia" e le sperimentazioni di "Days of Grays", allora "
Stones Grow Her Name" vi stupirà e vi permetterà di conoscere e apprezzare l'ennesimo e affascinante lato dei poliedrici finlandesi.
Quoth the Raven, Nevermore..