L’ho già detto in occasione del suo pregevole sodalizio con Martin Kronlund … sono molto felice che un
vocalist sottovalutato come David Reece sia riuscito a riconquistare gli “onori della cronaca”, innanzi tutto per straordinari meriti specifici e poi pure per l’audacia (e l’incoscienza …) che dimostrò nel tentare di sostituire un’autentica istituzione metallica come Udo (ai tempi del disco forse più controverso degli Accept, “Eat the heat”) e per la convinzione che manifestò con i suoi
Bangalore Choir in un’epoca in cui un certo tipo di rock melodico sembrava giunto al capolinea.
Dopo alcune fugaci apparizioni (Sircle Of Silence, Stream, Gipsy Rose, Alex De Rosso, …) e un albo da solista, il nostro rispolvera, dunque, il glorioso
monicker e s’impegna altresì in fruttuosi “progetti paralleli” (il succitato Reece/Kronlund, …) … segno evidente che la sua “stella” ha fortunatamente ricominciato a brillare e con continuità, tanto che chi temeva che il buon “Cadence“, il lavoro del ritorno della sua “creatura” principale, rappresentasse solo un’iniziativa
estemporanea, oggi potrà tranquillamente placare le sue ansie.
“Metaphor” è, infatti, disponibile ad allietare tutti i
fans del gruppo, ai quali si potranno eventualmente aggiungere tutti i
novizi della
band estimatori dell’
hard n’ heavy pregno di vibrante ispirazione
blues, in quello spettro comparativo che va dai Whitesnake ai Van Halen.
Evitando accuratamente uno “scientifico” confronto (troppi i “condizionamenti esterni”, nostalgia, momento storico, … e qualcuno leggermente più concreto, vedasi alcune differenti sfumature stilistiche …) con il favoloso “On target” del 1992, per tante ragioni l’inarrivabile capolavoro dei Bangalore Choir, posso affermare che era già da un po’ che non mi sentivo appagato così profondamente da un albo di questo genere, forse proprio da “Forevermore” o da certi momenti di “A different kind of truth”.
Troppo? Non credo. Anche se Andy Susemihl e Curtis Mitchell non possiedono il
magic touch di Eddie (ancora scintillante anche nella “maturità”) la loro prestazione è francamente inattaccabile (con un pizzico di apprezzabile
Schenkerismo nella fluente pasta chitarristica), mentre Reece, beh, la sua prestazione contingente è invidiabile, anche per colossi come Coverdale e Roth (e magari pure per altri analoghi giganti tipo Stanley e Sabu, per esempio).
Difficile trovare tangibili sbandamenti o momenti realmente inconsistenti nei quaranta minuti abbondanti del Cd e la ragione è semplice e scontata … non ci sono: fin dalla frizzante
opener “All the damage done”, passando per le favolose “Trojan horse”, “Silhouettes on the shade”, "Don’t act surprised” (puro
‘Snake style a 24 carati!), “Catch an angel fallin’” e “Civilized evil”, senza dimenticare un’accattivante
title-track, il
rootsy boogie n’ blues "Never fave ole Joe alone” e finendo con la virile sensibilità di “Scandinavian rose”, "Fools gold” e “Always be my angel”, il programma offre eccellenza compositiva e prestazioni esecutive pregne di
pathos e dinamismo, con il ritrovato
singer dalle mille risorse protagonista indiscutibile di un’opera presumibilmente incapace di “stravolgere” le sorti del gruppo e di “sconvolgere” il pubblico dei
rockofili più
smaliziati eppure impossibile da trascurare per la sua prepotente vitalità espressiva.
A ben vedere un difetto l’ho trovato … la copertina … ragazzi, una figliola degna della “storica” Marcia Polk, non sarebbe stata una soluzione migliore?