La commistione tra due diverse tendenze musicali, entrambe contraddistinte da una palese vocazione
mainstream, sembra essere l’attuale obiettivo dei torinesi
DieVanity alle prese con il loro primo
full-length ufficiale realizzato sotto la competente egida della logic(il)logic Records.
Il
gothic poppettoso di HIM e To/Die/For e l’
alternative “emotivo” alla Avenged Sevenfold, si ritrovano, infatti, combinati con una certa destrezza in “Ordinary death of something beautiful” e nonostante si tratti di generi ampiamente
inflazionati, il risultato finale può dirsi più interessante di quanto possa aspettarsi il
rockofilo tanto devoto quanto ormai anche piuttosto spossato dai molteplici
cloni offerti continuamente dal mercato.
Insomma, un prodotto che riesce ad essere più convincente dei suoi singoli componenti costitutivi proprio perché il quintetto dimostra di avere i mezzi tecnici e ed emozionali per gestire piuttosto bene il dosaggio degli elementi, enfatizzando la porzione malinconica e “decadente” senza farle mancare un giusto apporto di energia e aggressività, mantenendo intatto quel proposito di
catchiness richiesto dallo specifico contesto.
Al raggiungimento di un effetto davvero significante mancano, però, oltre ad una vera capacità di distinzione, le “grandi canzoni”, quelle veramente memorabili e contagiose, capaci di insinuarsi nelle sinapsi cerebrali e in altri vari gangli sensoriali, stabilendosi in modo permanente in tali sfuggenti dimore senza autorizzazione alcuna.
E’ necessario, dunque, nello specifico assegnare un altro aggettivo, certamente meno entusiasmante e nondimeno sempre gratificante, alla quasi totalità del programma a disposizione: “Curtains fall”, “Soldiers” (belli gli strappi
prog-metal), “Promise in words”, "Something wrong”, “A chance to the night” (il tocco
doomish è una chicca da non perdere) e la sognante ed enfatica
title-track sono “buoni” esempi di come il
sound del gruppo sappia coniugare le cromature del metallo con la drammaticità e la passione delle tinte notturne e crepuscolari (e in questo i nostri possono ricordare pure i finlandesi Entwine), mentre solo discrete, in quanto maggiormente prevedibili e manieristiche, appaiono “Kill vanity”, “The flag” e "What we call love”, tutta “roba” abbastanza gradevole e fascinosa, eppure davvero un po’ troppo effimera per regalare emozioni intense e durature.
Termino con un breve commento su “Deadline”, uno stuzzicante
esperimento di ammiccante
roots-gothic dagli effetti contrastanti e con una considerazione sull’ugola avvolgente di Cardinale, in grado di far palpitare i
fans di Ville Valo, così come di indispettire chi stigmatizza il ricorso evidente a modelli vocali di grande popolarità (lo stesso discorso si potrebbe, ovviamente, applicare anche ai moltissimi casi di
morbosa contemplazione marchiata Cornell, Vedder, Davis, Keenan e Rose, per esempio, senza andare a scomodare addirittura Dio, Plant, Halford, Perry e Rodgers …) … per quanto mi riguarda, ritengo Federico un valente interprete, ugualmente efficace sia nelle porzioni tenebrose e romantiche e sia in quelle impetuose … tuttavia, forse, a lui e a tutta la sua
band basterebbe un pizzico di superiore personalità e qualche eccesso di languore in meno, da aggiungere alla succitata messa a fuoco compositiva, per fare il salto di qualità “definitivo” e così rendere veramente i DieVanity una “merce” da “grande pubblico” (ammesso che nella situazione contingente si possa ancora usare tale definizione!). Coraggio ragazzi … ancora un piccolo sforzo, per fare in modo che in futuro il concetto di “ordinario” resti legato solo al (bel) titolo del vostro debutto sulla lunga distanza.