La migliore chiave di lettura del disco in questione la forniscono proprio i suoi autori nelle note informative che lo accompagnano alla
gloriosa disamina: “[…]
quattro brani in cui si possono sentire influenze di band come Soundgarden e Tool […].
Il problema è che troppo spesso influssi anche esplicitamente dichiarati non si rivelano tali alla prova dei fatti, finendo per risultare un “eufemismo” dietro cui occultare velleità sterilmente imitative, se non addirittura una sorta di
oltraggio perpetrato nei confronti di modelli così impegnativi e seminali.
Niente paura … gli
Hell’s Island non rischiano di essere tacciati né di attitudine palesemente
xerox-istica né di
lesa maestà poiché il loro “Black painted circle” è
davvero un esempio d’illuminata ispirazione, in cui i codici operativi dei suddetti numi tutelari (a cui aggiungerei Alice In Chains e perché no, pure Alter Bridge …) vengono onorati nel migliore dei modi, screziati come sono da guizzi di fresca personalità.
Il magnetismo, l’inquietudine, la tempra e il
pathos di quelle prodigiose esperienze artistiche “rivivono”, così, nei solchi di questo brillante mini-albo, sorprendente per la maturità che esprime nel tentativo di andare “oltre” le evidenti passioni dei suoi artefici, un processo verosimilmente non ancora del tutto compiuto, ma sicuramente già ad un livello di sviluppo tutt’altro che trascurabile.
Per affrontare in modo coerente un percorso simile, era ovviamente necessario poter contare su musicisti molto preparati e non solo sotto il profilo “intellettuale”, ed ecco che i componenti della band bresciana garantiscono questa
coditio sine qua non senza la minima ristrettezza, con la voce stentorea ed espressiva di Roberto Negrini capace di “sfidare” sul loro terreno preferito monumenti della fonazione modulata del calibro di Keenan, Cornell, Stanley e Kennedy.
Eccessiva “indulgenza”? Non credo. Ed è sufficiente ascoltare il crescendo melodico irresistibile e le pulsazioni della
title-track per rendersene conto immediatamente, protendersi verso il gorgo visionario e tormentato di “G.O.D. (Guilty of dying)” per averne una fondata conferma, lasciarsi avvolgere dal
groove ipnotico e incombente di “Opaque solo” per percepire netto il fremito impetuoso dei sensi, ormai completamente soggiogati quando “Down again” piazza il colpo risolutivo e (purtroppo) conclusivo, materializzando attraverso una dimensione sonora carica, tesa e fortemente emozionale le frustrazioni sentimentali trattate nel testo.
Difetti? Oltre all’esiguità del materiale, veramente pochi. Come anticipato, sono certo che la voglia di “progressione” porterà gli Hell’s Island ancora più “lontano”, ma entrare fin da ora nel loro “cerchio nero” rappresenta comunque una priorità significativa per ogni
rockofilo … del resto, riuscite a pensare ad un punto d’osservazione migliore per assistere alla loro evoluzione
definitiva?