“La fuga”, il primo
full-length (dopo un paio di
Ep e altrettanti singoli) dei mantovani
Sinezamia, s’inserisce prepotentemente sulla scia della gloriosa scuola
dark-wave italica di Litfiba, Underground Life, Neon e Diaframma, ma riesce a liberare una forma quantomeno vitale d’oscura energia che gli impedisce di arenarsi nelle sabbie dell’autocompiacimento citazionista.
Referenzialità e retorica lasciano, infatti, labili tracce della loro presenza grazie al potere della vocazione e a quello ancor più potente della “canzone”, un’arma formidabile atta a sconfiggere ogni eventuale rischio di
cliché e a trasformare la “nostalgia” acritica in un efficace esperimento di “rivitalizzazione” di percorsi sonori decadenti, morbosi, oscuri, elettrici eppure anche sufficientemente affabili, ricordandomi, in parte, rimanendo in Italia, pure l’opera di un gruppo come i Luciferme, alimentato da un’analoga urgenza comunicativa ed espressiva imbevuta di tinte fosche e crepuscolari.
L’ottimo Marco Grazzi (un cantante dalle
insidiose qualità vocali …) e i suoi valenti accoliti sapranno condurvi in quest’universo torbido e suggestivo, dove il “Ghiaccio nero” riserva brividi di pulsante inquietudine, “La fuga” si realizza con lo slancio di un
goth-rock dal tiro istantaneo, superato in tema di persuasione “a presa rapida” solo dalla cupa attrattiva di "Ombra” (non a caso uscito pure come singolo), un pezzo incalzante e ossessivo, figlio
legittimo di quei vertici nostrani dell’attitudine vibrante e tenebrosa citati all’inizio della disamina.
“Nella distanza” prima avvolge l’astante nel raso (vagamente La Crus-
iano) e poi lo scuote con un crescendo di notevole intensità, “Occhio elettrico” esplora con ammiccamento sinfonico l’ardore di un’impronta
proto-metallica e tuttavia scosse emozionali ben più dense di queste ultime le stimolano il
barocchismo sinistro e malinconico di “Venezia” e il dramma teso e sghembo di “Nebbia di guerra” (nuovamente con un finale “degno” della nostra testata!), in contrasto con “Frammenti”, dove brandelli di “convenzione” e un pizzico di sfocatura prendono il sopravvento, in un brano comunque complessivamente abbastanza gradevole.
Con un doveroso plauso al gran lavoro svolto nell’ambito dell’assemblaggio linguistico, metrico e poetico, sempre piuttosto “rischioso” e complicato quando si sceglie il cantato in italiano, si concludono le osservazioni su un disco di valore, che non sembra risentire dei difetti “congeniti” di tante autoproduzioni e che ratifica le qualità di una band che celebra un’epopea indimenticabile e tenta parimenti, in qualche modo, di prenderne le “distanze” … caratterizzare ulteriormente la proposta rappresenta la sfida “artistica”, mentre arrivare ad una sponsorizzazione autorevole sembra la soluzione più “naturale” e legittima, sfruttando anche quella propensione per il genere che il mercato discografico contemporaneo dimostra di non aver ancora esaurito.
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