Chic-rockers, ammiratori del connubio vigore e melodia, ascoltatori sensibili alle finezze dei paradisiaci orizzonti dell’
AOR, sostenitori di quella schiera eletta di eroi della fonazione modulata che comprende Eric Martin (pre-Mr. Big), John Waite, Alfie Zappacosta, Richard Marx e, soprattutto, Bryan Adams, un attimo d’attenzione: se cercate qualcuno in grado di stimolare, con le sue pastose e granulose corde vocali e le sue inebrianti armonie sonore, l’emozione spontanea di un languore romantico, la sensazione intensa di una suggestione vibrante che adesca e apre il cuore senza opprimerlo di
zuccheri sgradevoli, “Living in yesterday”, il secondo disco solista di
Harry Hess, vi attende con tutta la sua carica emotiva e la sua notevole forza espressiva.
Il prodotto nel complesso è davvero confezionato con grande cura ed eleganza e anche grazie a ospiti di lusso (Howie Simon, Magnus Karlsson, Marcie Free, Chris Green e Tommy “prezzemolino” Denander) e
vecchi amici (Peter Lesperance, Creighton Doane e Darren Smith, suoi sodali durante la straordinaria esperienza negli Harem Scarem) il nostro Herry ha saputo sviluppare e dosare al meglio gli ingredienti necessari ad un soggiogamento sensoriale di tipo raffinato,
radiofonico e vellutato eppure anche sufficientemente dinamico da scongiurare episodi di soverchia leziosità, forte di un grado di convinzione ed ispirazione sicuramente superiore al pur gradevole precedente del 2003 intitolato “Just another day”.
Ritornando alla menzione dell’illustre
chart-buster Adams, il paragone è ovviamente riferito ai suoi scintillanti esordi (le sue ultime imbolsite prove per me non esistono proprio …) e la cosa non sembri esagerata: ascoltate il
feeling tangibile della
title-track del disco o della struggente ballata “I live for you”, l’irresistibile vitalità passionale di “Don't leave me” e ancora l’orchestrale “What if”, e ditemi se non è proprio l’artefice di perle come “Cuts like a knife”, “Reckless” e “Waking up the neighbours” il primo a venirvi in mente, e senza scadere in forme di eccessiva benevolenza nostalgica.
Nel programma affiorano anche bagliori dei Def Leppard e (
fatalmente) degli Scarem più sofisticati, ma l’influsso preponderante rimane quello dei grandi
AOR entertainers, evocati nella vaporosa “Reach for you”, così come nella struggente ballata “It's over” o nella notturna "Falling down”, tutte gratificate da un’interpretazione all’altezza di una stirpe tanto autorevole.
Quasi a smentire la dichiarazione contenuta nel titolo dell’albo, arrivano, poi, i brani che ostentano un approccio maggiormente “moderno”, e se “Nothing lasts forever” (una specie di Foo Fighters iper-melodici) e “Where to run” (tra The Goo Goo Dolls e Muse) sono assai piacevoli, la stucchevole "I don't wanna want you” (una
roba alla Kelly Clarkson se non
addirittura alla Britney Spears), rappresenta una piccola “caduta di stile” che francamente mi sarei evitato, pur non compromettendo i notevoli pregi di un disco adatto agli estimatori dei suoni
adulti del
rock, garanti di una forma artistica, per quanto mi riguarda, dal valore inestinguibile,
ieri come
oggi.
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