I fan della prima ora probabilmente continuano a preferire l’esordio
“Script for a Jester’s Tear”, che a un primo ascolto aveva fatto credere a una reunion della line-up originale dei Genesis (e proprio in questo, a mio avviso, sta il suo unico limite), ma è in
“Misplaced Childhood” che si concretizza effettivamente il sound dei
Marillion dell’era
Fish. Si tratta di una sorta di autobiografia in musica e parole del cantante (il cui concept ha origine da un trip di 10 ore a base di LSD) che ha nei testi vari riferimenti alla vita passata dello scozzese: l’arcinota
“Kayleigh” rimanderebbe a una ex fidanzata di nome Kay Lee (ma non ci metto la mano sul fuoco),
“Heart of Lothian” ha nel titolo la regione scozzese Midlothian dove
Fish è nato, e chi più ne ha più ne metta. Musicalmente è da considerarsi come un unico brano diviso sui lati A e B del vinile originario (un
“Thick as a Brick” degli Anni Ottanta ma senza leitmotiv che si ripetono), già di per sé “un azzardo” per l’epoca di pubblicazione, idea di fatto contrastata dall’etichetta discografica che ha preteso un insieme di canzoni “circoscritte” con il compromesso di poterle legare tra loro in un unicum (tipo
“Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” per intenderci). Le influenze sono chiaramente quelle dei Genesis dell’era
Peter Gabriel, smussate e attualizzate con una classe encomiabile che ha reso celebre la band e definito le coordinate stilistiche del cosiddetto “neo-progressive”: atmosfere nostalgiche del periodo d’oro del prog, produzioni meglio definite con dinamiche più contenute e compresse, forma-canzone maggiormente rispettata, inserti strumentali limitati e meno virtuosistici in favore delle parti cantate. Un disco estremamente “morbido” (in particolare nell’edizione rimasterizzata nel 1998 da
Peter Mew), che alterna sapientemente colori e sfumature più cupe (come si evince dalla copertina) senza mai risultare noioso.